Stato e Rivoluzione
Prefazione
alla prima edizione
Il
problema dello Stato assume ai nostri giorni una particolare
importanza, sia dal punto di vista teorico che dal punto di vista
politico pratico. La guerra imperialista ha accelerato e acutizzato a
un grado estremo il processo di trasformazione del capitalismo
monopolistico in capitalismo monopolistico di Stato. L'oppressione
mostruosa delle masse lavoratrici da parte dello stato, il quale si
fonde sempre più strettamente con le onnipotenti associazioni dei
capitalisti, acquista proporzioni sempre più mostruose. I paesi più
avanzati si trasformano - ci riferiamo alle loro "retrovie"
- in case di pena militari per gli operai.
Gli
inauditi orrori e flagelli di una guerra di cui non si vede la fine,
rendono insostenibile la situazione delle masse, aumentano la loro
indignazione. La rivoluzione proletaria internazionale matura in modo
visibile, e il problema del suo atteggiamento verso lo Stato assume
un significato pratico.
Gli
elementi di opportunismo che si son venuti accumulando nel corso di
decenni di sviluppo relativamente pacifico, hanno fatto sorgere la
corrente socialsciovinista che domina nei partiti socialisti
ufficiali di tutto il mondo. Questa corrente (Plekhanov, Potresov,
Bresckovskaia, Rubanovic, e, in forma appena velata, i signori
Tsereteli, Cernov e consorti in Russia; Scheidemann, Legien, David e
altri in Germania; Renaudel, Guesde, Vandervelde in Francia e nel
Belgio; Hyndman e i fabiani in Inghilterra, ecc.), - che è
socialismo a parole e sciovinismo nei fatti - si distingue per
l'adattamento piatto, servile dei "capi" del "socialismo"
agli interessi non solo della "propria" borghesia
nazionale, ma precisamente del "proprio" Stato, giacchè da
lungo tempo la maggior parte delle cosiddette grandi potenze
sfruttano e asserviscono numerosi popoli piccoli e deboli. Orbene, la
guerra imperialista è appunto una guerra per la spartizione e la
ridistribuzione di un simile bottino. La lotta per sottrarre le masse
lavoratrici all'influenza della borghesia in generale, e in
particolare della borghesia imperialista, è impossibile senza una
lotta contro i pregiudizi opportunistici sullo "Stato".
Esamineremo
innanzitutto la dottrina di Marx e di Engels sullo Stato,
soffermandoci più a lungo sugli aspetti di questa dottrina che sono
stati dimenticati o travisati dall'opportunismo. Studieremo poi in
special modo il più autorevole rappresentante di queste
deformazioni, Karl Kautsky, il capo più noto di quella Seconda
Internazionale (1889-1914) così miseramente fallita nel corso della
guerra attuale. Trarremo infine i principali insegnamenti
dall'esperienza delle rivoluzioni russe, del 1905 e soprattutto del
1917. Quest'ultima, a quanto pare, volge in questo momento (principio
d'agosto 1917) al termine della sua prima fase di sviluppo; ma tutta
questa rivoluzione non può essere concepita se non come un anello
della catena delle rivoluzioni proletarie socialiste provocate dalla
guerra imperialista. La questione dell'atteggiamento della
rivoluzione socialista del proletariato nei confronti dello Stato
acquista quindi un significato non solamente politico pratico, ma
assume anche un carattere di scottante attualità, perchè si tratta
di far comprendere alle masse che cosa dovranno fare per liberarsi,
in un avvenire prossimo, dal giogo del capitale.
I.
La società classista e lo Stato
1.
Lo Stato, prodotto dell'antagonismo inconciliabile tra le classi
Accade
oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia
alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi
oppresse in lotta per la loro liberazione. Le classi dominanti hanno
sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con
incessanti persecuzioni; la loro dottrina è stata sempre accolta con
il più selvaggio furore, con l'odio più accanito e con le più
impudenti campagne di menzogne e di diffamazioni. Ma, dopo morti, si
cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli, per così
dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a
"consolazione" e mistificazione delle classi oppresse,
mentre si svuota del contenuto la loro dottrina rivoluzionaria, se ne
smussa la punta, la si avvilisce. La borghesia e gli opportunisti in
seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il
marxismo a un tale "trattamento". Si dimentica, si
respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua
anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è
o pare accettabile alla borghesia. Tutti i socialsciovinisti - non
ridete! - sono oggi "marxisti". E gli scienziati borghesi
tedeschi sino a ieri specializzati nello sterminio del marxismo,
parlano sempre più spesso di un Marx "nazionaltedesco" che
avrebbe educato i sindacati operai, così magnificamente organizzati
per condurre una guerra di rapina!
Così
stando le cose, e dato che le deformazioni del marxismo si sono
diffuse in modo inaudito, compito nostro è, innanzi tutto,
ristabilire la vera dottrina di Marx sullo Stato. Dovremo a tal fine
fare lunghe citazioni dalle opere stesse di Marx e di Engels.
Naturalmente queste lunghe citazioni renderanno più pesante l'
esposizione e non contribuiranno affatto a renderla popolare. Ma è
assolutamente impossibile farne a meno. Tutti i passi, o almeno tutti
i passi fondamentali di Marx e di Engels sullo Stato, debbono essere
riportati in maniera quanto più è possibile completa, perchè il
lettore possa farsi un'idea personale dell'insieme delle concezioni
dei fondatori del socialismo scientifico, dello sviluppo di queste
concezioni e anche per dimostrare, con le prove alla mano, in modo
evidente, che il "kautskismo" attualmente dominante le ha
snaturate.
Cominciamo
con l'opera più diffusa di F. Engels, L'origine della famiglia,
della proprietà privata e dello Stato, pubblicata già nella sesta
edizione a Stoccarda nel 1894. Dobbiamo tradurre dall'originale
tedesco perchè le traduzioni russe, per quanto numerose, sono nella
maggior parte incomplete o molto difettose.
"Lo
Stato dunque - dice Engels, arrivando alle conclusioni della sua
analisi storica - non è affatto una potenza imposta alla società
dall'esterno e nemmeno "la realtà dell'idea etica",
"l'immagine e la realtà della ragione", come afferma
Hegel. Esso è piuttosto un prodotto della società giunta a un
determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società
si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si
è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare.
Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici
in conflitto, non distruggano se stessi e la società in una sterile
lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di
sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei
limiti dell'"ordine"; e questa potenza che emana dalla
società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre
più da essa, è lo Stato" [1] (pp. 177-178, sesta edizione
tedesca).
Qui
è espressa, in modo perfettamente chiaro, l'idea fondamentale del
marxismo sulla funzione storica e sul significato dello Stato. Lo
Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi
inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in
quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe
non possono essere oggettivamente conciliati. E, per converso,
l'esistenza dello Stato prova che gli antagonismi di classe sono
inconciliabili.
E'
precisamente su questo punto di capitale e fondamentale importanza
che comincia la deformazione deI marxismo, deformazione che segue due
linee principali.
Da
un lato gli ideologi borghesi, e soprattutto piccolo-borghesi,
costretti a riconoscere, sotto la pressione di fatti storici
incontestabili, che lo Stato esiste soltanto dove esistono
antagonismi di classe e la lotta di classe, "correggono"
Marx in modo tale che lo Stato appare come l'organo della
conciliazione delle classi. Per Marx, se la conciliazione delle
classi fosse possibile, lo Stato non avrebbe potuto né sorgere né
continuare ad esistere. Secondo i professori e pubblicisti
piccolo-borghesi e filistei - che molto spesso si riferiscono con
compiacimento a Marx - è proprio lo Stato a conciliare le classi.
Per Marx lo Stato è l'organo del dominio di classe, un organo di
oppressione di una classe da parte di un'altra; è la creazione di un
"ordine" che legalizza e consolida questa oppressione,
moderando il conflitto fra le classi. Per gli uomini politici
piccolo-borghesi l'ordine è precisamente la conciliazione delle
classi e non l'oppressione di una classe da parte di un'altra;
attenuare il conflitto vuol dire per essi conciliare e non già
privare le classi oppresse di determinati strumenti e mezzi di lotta
per rovesciare gli oppressori.
Così
nella rivoluzione del 1917, quando la questione del significato e
della funzione dello Stato si pose in tutta la sua ampiezza, si pose
praticamente come un problema di azione immediata, e, per di più, di
azione di massa, tutti i socialisti-rivoluzionari e i menscevichi
caddero subito e pienamente nella teoria piccolo-borghese della
"conciliazione" delle classi "per opera dello Stato".
Innumerevoli risoluzioni e articoli di uomini politici di quei due
partiti sono profondamente impregnati di questa teoria
piccolo-borghese e filistea della "conciliazione". Che lo
Stato sia l'organo di dominio di una classe determinata, che non può
essere conciliata col suo antipode (la classe che è al polo
opposto), la democrazia piccolo-borghese non sarà mai in grado di
capirlo. L'atteggiamento dei nostri socialistirivoluzionari e dei
nostri menscevichi verso lo Stato è una delle prove più evidenti
che essi non sono affatto dei socialisti (ciò che noi, bolscevichi,
abbiamo sempre dimostrato), ma dei democratici piccolo-borghesi che
usano una fraseologia quasi socialista.
D'altra
parte, la deformazione "kautskiana" del marxismo è molto
più sottile. "Teoricamente" non si contesta che lo Stato
sia l'organo del dominio di classe, né che gli antagonismi di classe
siano inconciliabili. Ma si trascura o attenua quanto segue: se lo
Stato è un prodotto dell'inconciliabilità degli antagonismi di
classe, se esso è una forza che sta al di sopra della società e che
"si estranea sempre più dalla società", è evidente che
la liberazione della classe oppressa è impossibile non soltanto
senza una rivoluzione violenta, ma anche senza la distruzione
dell'apparato del potere statale che è stato creato dalla classe
dominante e nel quale questa "estraneazione" si è
materializzata. Questa conclusione, teoricamente di per sé chiara, è
stata tratta da Marx con perfetta precisione, come vedremo più
tardi, dall' analisi storica concreta dei compiti della rivoluzione.
Kautsky ha... "dimenticato" e travisato appunto questa
conclusione, come dimostreremo particolareggiatamente nel seguito
della nostra esposizione.
2.
Distaccamenti speciali di uomini armati, prigioni, ecc.
"...Nei
confronti dell'antica organizzazione gentilizia [della tribù o del
clan] - continua Engels - il primo segno distintivo dello Stato è la
divisione dei cittadini..."
Questa
divisione a noi sembra "naturale", ma essa richiese una
lunga lotta con l'antica organizzazione per clan o per stirpi.
"...Il
secondo punto è l'istituzione di una forza pubblica che non coincide
più direttamente con la popolazione che organizza se stessa come
potere armato. Questa forza pubblica particolare è necessaria perchè
un'organizzazione armata autonoma della popolazione è divenuta
impossibile dopo la divisione in classi... Questa forza pubblica
esiste in ogni Stato e non consta semplicemente di uomini armati, ma
anche di appendici reali, prigioni e istituti di pena di ogni genere,
di cui nulla sapeva la società gentilizia... ". [2]
Engels
sviluppa la nozione di questa "forza", chiamata Stato,
forza che è sorta dalla società ma che si pone al di sopra di essa
e se ne estranea sempre più. In che consiste principalmente questa
forza? Essa consiste anzitutto in distaccamenti speciali di uomini
armati che dispongono di prigioni, ecc.
Abbiamo
il diritto di parlare di distaccamenti speciali di uomini armati,
perchè il potere pubblico proprio di ogni Stato "non coincide
più direttamente" con la popolazione armata, con la sua
"organizzazione armata autonoma".
Come
tutti i grandi pensatori rivoluzionari, Engels si sforza di attirare
l'attenzione dei lavoratori coscienti su ciò che il filisteismo
dominante considera come meno degno d'attenzione, come più usuale,
come cosa consacrata da pregiudizi non solo tenaci, ma, si potrebbe
dire, fossilizzati. L'esercito permanente e la polizia sono i
principali strumenti di forza del potere statale. Ma potrebbe forse
essere altrimenti?
Per
la gran maggioranza degli europei della fine del secolo decimonono, a
cui Engels si rivolgeva, e che non avevano vissuto né osservato da
vicino nessuna grande rivoluzione, non poteva essere altrimenti. Essi
non comprendevano assolutamente che cosa fosse questa "organizzazione
armata autonoma della popolazione". Perchè è apparsa la
necessità di distaccamenti speciali di uomini armati (polizia,
esercito permanente), posti al di sopra della società e che si
estraneano da essa? A tale domanda i filistei dell'Europa occidentale
o della Russia sono inclini a rispondere con una copia di frasi prese
in prestito da Spencer o da Mikhailovski e tirano in ballo la
crescente complessità della vita sociale, la differenziazione delle
funzioni, ecc.
Questi
argomenti sembrano "scientifici" ed assopiscono
meravigliosamente il buon pubblico, velando la cosa principale,
essenziale: la scissione della società in classi inconciliabilmente
nemiche.
Se
non ci fosse questa scissione, "l'organizzazione armata autonoma
della popolazione" differirebbe per la sua complessità, per la
sua tecnica progredita, ecc. dall'organizzazione primitiva d'un
branco di scimmie armate di bastoni, o da quella di uomini primitivi
o associati in clan, ma tuttavia sarebbe possibile.
Essa
è impossibile perchè la società civile è divisa in classi ostili,
e per di più inconciliabilmente ostili, il cui armamento "autonomo"
determinerebbe una lotta armata fra di esse. Lo Stato si forma; si
crea una forza distinta, si creano distaccamenti speciali di uomini
armati; e ogni rivoluzione, distruggendo l'apparato statale, ci
dimostra con tutta evidenza come la classe dominante si sforza di
ricostruire distaccamenti speciali di uomini armati che la servano, e
come la classe oppressa si sforza di creare una nuova organizzazione
dello stesso genere, capace di servire non più gli sfruttatori, ma
gli sfruttati.
Nel
passo citato, Engels pone teoricamente lo stesso problema che ogni
grande rivoluzione pone praticamente davanti a noi con evidenza, e,
inoltre, nell'ampiezza di una azione di massa, e precisamente: il
problema del rapporto tra i distaccamenti "speciali" di
uomini armati e l' "organizzazione armata autonoma della
popolazione". Vedremo come questo problema è concretamente
illustrato dalla esperienza delle rivoluzioni europee e russe.
Ma
torniamo all' esposizione di Engels.
Egli
mostra che talvolta, per esempio in certe regioni dell'America del
Nord, il potere pubblico è debole (si tratta di un'eccezione assai
rara nella società capitalistica e delle regioni dell' America del
Nord in cui, nel periodo preimperialistico, predominava il colono
libero), ma che, in generale, esso va rafforzandosi:
[
La forza pubblica] "...si rafforza nella misura in cui gli
antagonismi di classe all'interno dello Stato si acuiscono e gli
Stati tra loro confinanti diventano più grandi e popolosi. Basta
guardare la nostra Europa di oggi, in cui la lotta di classe e la
concorrenza nelle conquiste ha portato il potere pubblico a
un'altezza da cui minaccia di inghiottire l'intera società e perfino
lo Stato".[ [3]]
Queste
righe furono scritte poco dopo il 1890, non più tardi. L'ultima
prefazione di Engels ha la data del 16 giugno 1891. L'evoluzione
verso l'imperialismo - sia nel senso del dominio assoluto dei trust
che dell'onnipotenza delle grandi banche e della politica coloniale
in grande, ecc. - era in quel tempo appena ai primi albori in
Francia; ed ancora più debole era in America e in Germania. Da
allora la "concorrenza nelle conquiste" ha fatto passi da
gigante, tanto più che il globo terrestre si era trovato all'inizio
del decennio 1910-1920 definitivamente spartito fra questi
"concorrenti nelle conquiste", cioè fra le grandi potenze
predatrici. Da allora gli armamenti di terra e di mare si sono
accresciuti in proporzioni incredibili, e la guerra di rapina del
1914-1917, per il dominio sul mondo dell'Inghilterra o della Germania
e per una ripartizione del bottino, ha avvicinato a una catastrofe
completa il processo grazie al quale un potere statale vorace
"minaccia di inghiottire" tutte le forze della società.
Sin
dal 1891 Engels aveva saputo denunciare la "concorrenza nelle
Conquiste" come una delle più importanti caratteristiche della
politica estera delle grandi potenze, mentre i mascalzoni del
socialsciovinismo, nel 1914-1917, quando appunto questa rivalità,
diventata ancora più acuta, ha generato la guerra imperialista,
coprono la loro difesa degli interessi predatori della "loro"
borghesia con frasi sulla "difesa della patria", sulla
"difesa della repubblica e della rivoluzione", ecc.!
3.
Lo Stato, strumento di sfruttamento della classe oppressa
Per
mantenere un potere pubblico speciale, posto al di sopra della
società, sono necessarie delle imposte e un debito pubblico.
"...In
possesso della forza pubblica e del diritto di riscuotere imposte, -
scrive Engels - i funzionari appaiono ora come organi della società
al di sopra della società. La libera, volontaria stima che veniva
tributata agli organi della costituzione gentilizia non basta loro,
anche se potessero riscuoterla." Si fanno leggi speciali sulla
santità e sull'inviolabilità dei funzionari. Il "più misero
poliziotto" ha più "autorità" degli organi della
società gentilizia, ma persino ...il capo dell'esercito di un paese
civile potrebbe invidiare al capo gentilizio la stima spontanea e
incontestata che gli viene tributata" [4]
Si
pone qui la questione dei privilegi dei funzionari quali organi del
potere statale. Il punto essenziale è questo: che cosa li pone al di
sopra della società? Vedremo come questa questione teorica sia stata
risolta in pratica dalla Comune di Parigi nel 1871 e come sia stata
messa in ombra in modo reazionario da Kautsky nel 1912.
"...Lo
Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi
di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di
queste classi, è, per regola, lo Stato della classe più potente,
economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche
politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per
tenere sottomessa e per sfruttare la classe oppressa"...Non solo
lo Stato antico e lo Stato feudale erano organi deIlo sfruttamento
degli schiavi e dei servi, ma anche "lo Stato rappresentativo
moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da
parte del capitale. Eccezionalmente tuttavia, vi sono dei periodi in
cui le classi in lotta hanno forze pressoché eguali, cosicchè il
potere statale, in qualità di apparente mediatore, momentaneamente
acquista una certa autonomia di fronte ad entrambe". Così la
monarchia assoluta dei secoli decimosettimo e decimottavo, il
bonapartismo del primo e del secondo Impero in Francia, Bismarck in
Germania.
Così
aggiungiamo noi, il governo di Kerenski nella Russia repubblicana,
dopo ch'esso è passato alle persecuzioni contro il proletariato
rivoluzionario nel momento in cui i Soviet sono già impotenti per
causa dei loro dirigenti piccolo-borghesi, e la borghesia non è
ancora abbastanza forte per scioglierli senz'altro.
Nella
repubblica democratica - continua Engels - "la ricchezza
esercita il suo potere indirettamente, ma in maniera tanto più
sicura", in primo luogo con la "corruzione diretta dei
funzionari" (America), in secondo luogo con "l'alleanza tra
governo e Borsa" (Francia e America). [5]
Nel
momento attuale, l'imperialismo e il dominio delle banche "hanno
sviluppato" sino a farne un'arte raffinata, in qualsiasi
repubblica democratica, questi due metodi di difesa e di
realizzazione dell'onnipotenza della ricchezza. Se, per esempio, fin
dai primi mesi della repubblica democratica in Russia, durante, per
così dire, la luna di miele del connubio dei "socialisti"
- socialisti-rivoluzionari e menscevichi - con la borghesia nel
governo di coalizione, il signor Palcinski [6] ha sabotato tutti i
provvedimenti tendenti a frenare i capitalisti e la loro
speculazione, il saccheggio da parte loro dell'erario mediante le
forniture militari; se in seguito il signor Palcinski, uscito dal
ministero (e naturalmente sostituito da una altro Palcinski del suo
stesso stampo), è stato "gratificato" dai capitalisti di
una piccola sinecura con uno stipendio di centoventimila rubli
all'anno, - che cosa è questo? corruzione diretta o indiretta?
alleanza del governo con le organizzazioni dei capitalisti o
"semplicemente" relazioni di buona amicizia? Quale funzione
hanno i Cernov e gli Tsereteli, gli Avksentiev e gli Skobelev? Sono
alleati "diretti", o soltanto indiretti, dei milionari
concussionari?
L'onnipotenza
della "ricchezza" è, in una repubblica democratica, tanto
più sicura in quanto non dipende da un cattivo involucro politico
del capitalismo. La repubblica democratica è il migliore involucro
politico possibile per il capitalismo; per questo il capitale, dopo
essersi impadronito (grazie ai Palcinski, ai Cernov, agli Tsereteli e
consorti) di questo involucro - che è il migliore - fonda il suo
potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun
cambiamento, né di persone, né di istituzioni, né di partiti
nell'ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo.
Bisogna
ancora rilevare che Engels definisce in modo categorico il suffragio
universale come uno strumento di dominio della borghesia. Il
suffragio universale, egli dice, tenendo evidentemente conto della
lunga esperienza della socialdemocrazia tedesca, è
"la
misura della maturità della classe operaia. Più non può né potrà
mai essere nello Stato odierno".
I
democratici piccolo-borghesi, sul tipo dei nostri
socialistirivoluzionari e dei nostri menscevichi, come i loro
fratelli, tutti i socialsciovinisti e opportunisti dell'Europa
occidentale, aspettano dal suffragio universale proprio qualche cosa
"di più". Essi condividono e inculcano nel popolo la falsa
concezione che il suffragio universale possa "nello Stato
odierno" esprimere realmente la volontà della maggioranza dei
lavoratori e assicurarne la realizzazione.
Noi
possiamo qui soltanto rilevare che questa concezione è falsa e far
notare che l'affermazione chiara, precisa e concreta di Engels è ad
ogni passo travisata nella propaganda e nell'agitazione dei partiti
socialisti "ufficiali" (cioè opportunisti). Dimostreremo
in modo particolareggiato quanto sia falsa la concezione che Engels
qui respinge, esponendo più avanti le teorie di Marx e di Engels
sullo Stato odierno.
Nella
sua opera più popolare, Engels dà un riassunto conclusivo delle sue
concezioni con le parole seguenti:
"Lo
Stato non esiste dunque dall'eternità. Vi sono state società che ne
hanno fatto a meno e che non avevano alcuna idea di Stato e di potere
statale. In un determinato grado dello sviluppo economico,
necessariamente legato alla divisione della società in classi,
proprio a causa di questa divisione lo Stato è diventato una
necessità. Ci avviciniamo ora, a rapidi passi, ad uno stadio di
sviluppo della produzione nel quale la esistenza di queste classi non
solo ha cessato di essere una necessità ma diventa un ostacolo
effettivo alla produzione. Perciò esse cadranno così
ineluttabilmente come sono sorte. Con esse cadrà ineluttabilmente lo
Stato. La società, che riorganizza la produzione in base a una
libera ed eguale associazione di produttori, relega l'intera macchina
statale nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel museo
delle antichità accanto alla rocca per filare e all'ascia di
bronzo". [7]
Questa
citazione non accade di incontrarla spesso nella letteratura di
propaganda e di agitazione della socialdemocrazia contemporanea. E
quando la si ricorda, lo si fa per lo più come se ci si volesse
genuflettere davanti a un'icona, per rendere cioè ufficialmente
omaggio a Engels, senza il minimo tentativo di riflettere
sull'ampiezza e la profondità della rivoluzione che è presupposta
in questo "relegare l'intera macchina statale nel museo delle
antichità". Il più delle volte non si arriva neppure a
comprendere ciò che Engels intende per macchina dello Stato.
4.
L'"estinzione" dello Stato e la rivoluzione violenta
Le
parole di Engels sull'"estinzione" dello Stato godono di
una così larga notorietà, sono così spesso citate, mettono così
bene in rilievo l'essenza stessa della falsificazione abituale del
marxismo acconciato alla maniera opportunista, che è necessario
soffermarsi su di esse in modo particolare. Citiamo tutto il passo da
cui sono tratte:
"Il
proletariato si impadronisce del potere dello Stato e anzitutto
trasforma i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. Ma così
sopprime se stesso come proletariato, sopprime ogni differenza di
classe e ogni antagonismo di classe e sopprime anche lo Stato come
Stato. La società esistita sinora, muoventesi sul piano degli
antagonismi di classe, aveva necessità dello Stato, cioè di una
organizzazione della classe sfruttatrice in ogni periodo, per
conservare le condizioni esterne della sua produzione e quindi
specialmente per tener con la forza la classe sfruttata nelle
condizioni di oppressione date dal modo vigente di produzione
(schiavitù, servitù della gleba, semiservitù feudale, lavoro
salariato). Lo Stato era il rappresentante ufficiale di tutta la
società, la sua sintesi in un corpo visibile, ma lo era in quanto
era lo Stato di quella classe che per il suo tempo rappresentava,
essa stessa, tutta quanta la società: nell'antichità era lo Stato
dei cittadini padroni di schiavi, nel medioevo lo Stato della nobiltà
feudale, nel nostro tempo lo Stato della borghesia. Ma, diventando
alla fine effettivamente il rappresentante di tutta la società, si
rende, esso stesso, superfluo. Non appena non ci sono più classi
sociali da mantenere nell'oppressione, non appena con l'eliminazione
del dominio di classe e della lotta per l'esistenza individuale
fondata sull'anarchia della produzione sinora esistente, saranno
eliminati anche le collisioni e gli eccessi che sorgono da tutto ciò,
non ci sarà da reprimere più niente di ciò che rendeva necessaria
una forza repressiva particolare, uno Stato. Il primo atto con cui lo
Stato si presenta realmente come rappresentante di tutta la società,
cioè la presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome
della società, è ad un tempo l'ultimo suo atto indipendente in
quanto Stato. L'intervento di una forza statale nei rapporti sociali
diventa superfluo successivamente in ogni campo e poi viene meno da
se stesso. Al posto del governo sulle persone appare
l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi.
Lo Stato non viene " abolito": esso si estingue. Questo è
l'apprezzamento che deve farsi della frase "Stato popolare
libero", tanto quindi per la sua giustificazione temporanea in
sede di agitazione, quanto per la sua definitiva insufficienza in
sede scientifica; e questo è del pari l'apprezzamento che deve farsi
dell'esigenza dei cosiddetti anarchici che lo Stato debba essere
abolito dall'oggi al domani" [8] ( Antidühring. [La scienza
sovvertita dal signor Eugenio Dühring], pp. 302-303, terza ed.
tedesca, 1894).
Si
può dire senza timore di sbagliare che di tutto questo ragionamento
di Engels, straordinariamente ricco di idee, i partiti socialisti di
oggi non hanno veramente acquisito nel loro pensiero che la formula
secondo cui, per Marx, lo Stato "si estingue", in
contrapposizione alla dottrina anarchica dell'"abolizione"
dello Stato. Amputare in tal modo il marxismo vuol dire ridurlo
all'opportunismo, poichè, dopo una tale "interpretazione"
non rimane che il concetto vago di un cambiamento lento, uguale,
graduale, senza sussulti né tempeste, senza rivoluzione. La
"estinzione" dello Stato nel concetto corrente,
generalmente diffuso, di massa, se così si può dire, è senza
dubbio la scomparsa, se non la negazione, della rivoluzione.
Ebbene,
questa "interpretazione" è la piu grossolana deformazione
del marxismo, utile solo alla borghesia, ed è teoricamente possibile
solo se si trascurano i principali elementi e, per esempio, gli
argomenti indicati nello stesso ragionamento "conclusivo"
di Engels che abbiamo citato per esteso.
Primo.
Proprio al principio del suo ragionamento Engels dice che il
proletariato, impadronendosi del potere sopprime con ciò "Lo
Stato in quanto Stato". Riflettere sul significato di questa
frase è cosa che "non entra nelle abitudini". Per lo più
o si trascura completamente questo pensiero o vi si vede una specie
di "debolezza hegeliana" di Engels. In realtà, in queste
parole è espressa in forma incisiva l'esperienza di una delle più
grandi rivoluzioni proletarie, l'esperienza della Comune di Parigi
del 1871, di cui parleremo a lungo più avanti. In realtà, Engels
parla qui di "soppressione" dello Stato della borghesia per
opera della rivoluzione proletaria, mentre ciò ch'egli dice
sull'estinzione dello Stato riguarda i resti dello Stato proletario
che sussisteranno dopo la rivoluzione socialista. Lo Stato borghese,
secondo Engels, non "si estingue"; esso viene "soppresso"
dal proletariato nel corso della rivoluzione. Ciò che si estingue
dopo questa rivoluzione, è lo Stato proletario o semi-Stato.
Secondo.
Lo Stato è una "forza repressiva particolare". Questa
definizione di Engels, meravigliosa e in sommo grado profonda, è qui
enunciata con perfetta chiarezza. E ne deriva che questa "forza
repressiva particolare" del proletariato da parte della
borghesia, di milioni di lavoratori da parte di un pugno di ricchi,
deve essere sostituita da una "forza repressiva particolare"
della borghesia da parte del proletariato (dittatura del
proletariato). In ciò appunto consiste "la soppressione dello
Stato in quanto Stato". In ciò consiste 1'"atto"
della presa di possesso dei mezzi di produzione in nome della
società. E' ovvio che questa sostituzione di una "forza
particolare" (quella della borghesia) con un'altra "forza
particolare" (quella del proletariato), non può avvenire nella
forma di "estinzione".
Terzo.
Questa "estinzione", o, per parlare con più risalto e più
colore, questo "assopimento", Engels lo riferisce in modo
chiaro ed evidente al periodo che segue "la presa di possesso di
tutti i mezzi di produzione in nome della società", cioè al
periodo che segue la rivoluzione socialista. E' noto a tutti noi che
la forma politica dello "Stato" in tale momento è la
democrazia più completa. Ma a nessuno degli opportunisti che
snaturano sfrontatamente il marxismo viene in mente che qui si tratta
quindi, in Engels, dell'"assopimento" e dell'"estinzione"
della democrazia. A prima vista ciò pare molto strano; ma è
"incomprensibile" soltanto per chi non ricordi che anche la
democrazia è uno Stato e che anch'essa, quindi, scompare quando
scompare lo Stato. Solo la rivoluzione può "sopprimere" lo
Stato borghese. Lo Stato in generale, cioè la democrazia più
completa, non può che "estinguersi".
Quarto.
Enunciando la sua celebre tesi: "Lo Stato si estingue",
Engels si affretta a precisare che essa è diretta e contro gli
opportunisti e contro gli anarchici. Inoltre da Engels è posta in
primo piano quella conclusione dalla tesi sull'"estinzione dello
Stato" che è diretta contro gli opportunisti.
Si
può scommettere che su diecimila persone che hanno letto o hanno
sentito parlare dell'"estinzione" dello Stato,
novemilanovecentonovanta ignorano assolutamente o hanno dimenticato
che Engels dirigeva le conclusioni di questa tesi non soltanto contro
gli anarchici. E sulle dieci che restano, ce ne sono certamente nove
che non sanno che cosa sia "lo Stato popolare libero", e
perchè mai nell'attacco contro questa parola d'ordine è contenuto
un attacco contro gli opportunisti. Così si scrive la storia! Così
si altera in sordina la grande dottrina rivoluzionaria accomodandola
alla maniera del filisteismo dominante. La conclusione contro gli
anarchici è stata mille volte ripetuta, banalizzata, conficcata nel
modo più semplicista nei cervelli e ha acquistato la tenacia di un
pregiudizio. E la conclusione contro gli opportunisti è stata messa
in ombra e "dimenticata "!
Lo
"Stato popolare libero" era una rivendicazione
programmatica, una parola d'ordine corrente dei socialdemocratici
tedeschi degli anni 1870-1880. In questa parola d'ordine non v'è
alcun contenuto politico salvo una pomposa enunciazione
piccolo-borghese della nozione di democrazia. In quanto essa faceva
legalmente allusione alla repubblica democratica, Engels era disposto
a "giustificarla" "temporaneamente" dal punto di
vista dell'agitazione. Ma questa parola d'ordine era opportunista,
non soltanto perchè imbelliva la democrazia borghese, ma anche
perchè esprimeva l'incomprensione della critica socialista di ogni
Stato in generale. Noi siamo per la repubblica democratica, in quanto
essa è, in regime capitalista, la forma migliore di Stato per il
proletariato, ma non abbiamo il diritto di dimenticare che la sorte
riservata al popolo, anche nella più democratica delle repubbliche
borghesi, è la schiavitù salariata. Proseguiamo. Ogni Stato è una
"forza repressiva particolare" della classe oppressa.
Quindi uno Stato, qualunque esso sia, non è libero e non è
popolare. Marx ed Engels l'hanno spiegato cento volte ai loro
compagni di partito negli anni 1870-1880.
Quinto.
La stessa opera di Engels, in cui si trova il ragionamento
sull'estinzione dello Stato che tutti ricordano, contiene anche una
considerazione sul significato della rivoluzione violenta. La
valutazione storica della sua funzione si trasforma in Engels in un
vero panegirico della rivoluzione violenta. Nessuno "se ne
ricorda"; nei partiti socialisti contemporanei non usa parlare
dell'importanza di questa idea e nemmeno pensarvi; nella propaganda e
nell'agitazione quotidiana fra le masse queste idee non trovano
nessun posto. Eppure esse sono indissolubilmente legate all'idea
dell'"estinzione" dello Stato, con la quale formano un
tutto.
Ecco
questa considerazione di Engels:
"...che
la violenza abbia nella società ancora un'altra funzione [oltre al
male che essa produce], una funzione rivoluzionaria, che essa,
secondo le parole di Marx, sia la levatrice di ogni vecchia società
gravida di una nuova, che essa sia lo strumento con cui si compie il
movimento della società, e che infrange forme politiche irrigidite e
morte, di tutto questo nel sig. Dühring non si trova neanche una
parola. Solo con sospiri e con gemiti egli ammette la possibilità
che per abbattere l'economia dello sfruttamento sarà forse
necessaria la violenza...purtroppo! Infatti [secondo Dühring] ogni
uso di violenza demoralizza colui che la usa. E questo di fronte
all'elevato slancio morale e intellettuale che è stato il risultato
di ogni rivoluzione vittoriosa! E questo in Germania, dove una
violenta collisione, che potrebbe anche essere imposta al popolo,
avrebbe almeno il vantaggio di estirpare lo spirito servile che, a
causa dell' avvilimento conseguente alla guerra dei trenta anni, ha
permeato la coscienza nazionale. E questa mentalità da predicatore,
fiacca, insipida e impotente, ha la pretesa di imporsi al partito più
rivoluzionario che la storia conosca?" [9] (p. 193, terza ed.
tedesca, fine del 4° capitolo, II parte).
Come
unire nella stessa dottrina questo panegirico della rivoluzione
violenta, tenacemente presentato da Engels ai socialdemocratici
tedeschi dal 1878 al 1894, cioè fino alla sua morte [10], e la
teoria dell' "estinzione" dello Stato?
Di
solito li si unisce con un procedimento eclettico, ricorrendo senza
criterio e in modo sofistico, arbitrariamente (o per compiacere ai
detentori del potere), ora all'uno, ora all'altro di questi
ragionamenti, e novantanove volte su cento, se non di più, è
precisamente 1'"estinzione" che è messa in primo piano.
L'eclettismo è sostituito alla dialettica; nei confronti del
marxismo questa è la cosa più consueta, più frequente nella
letteratura socialdemocratica ufficiale dei nostri giorni. Questa
sostituzione non è certo una novità; si potè osservarla persino
nella storia della filosofia greca classica. Nella falsificazione
opportunista del marxismo, la falsificazione eclettica della
dialettica inganna con più facilità le masse, dà loro una
apparente soddisfazione, finge di tener conto di tutti gli aspetti
del processo di tutte le tendenze dello sviluppo e di tutte le
influenze contraddittorie ecc., ma in realtà non dà alcuna nozione
completa e rivoluzionaria del processo di sviluppo della società.
Abbiamo
già detto prima, e lo dimostreremo in modo più particolareggiato
nel seguito della nostra argomentazione, che la dottrina di Marx e di
Engels sulla necessità della rivoluzione violenta si riferisce allo
Stato borghese. Questo non può essere sostituito dallo Stato
proletario (dittatura del proletariato) per via di "estinzione";
può esserlo unicamente, come regola generale, per mezzo della
rivoluzione violenta. Il panegirico con cui Engels esalta la
rivoluzione violenta concorda pienamente con le numerose
dichiarazioni di Marx (ricordiamo la conclusione della Miseria della
filosofia e del Manifesto del Partito comunista che proclama
fieramente e categoricamente l'ineluttabilità della rivoluzione
violenta; ricordiamo la critica del programma di Gotha nel 1875,
circa trent'anni più tardi, dove Marx flagella implacabilmente
l'opportunismo di questo programma). Questo panegirico non è per
nulla effetto di una "infatuazione", né una declamazione,
né una trovata polemica. La necessità di educare sistematicamente
le masse in questa - e precisamente in questa - idea della
rivoluzione violenta, è alla base di tutta la dottrina di Marx e di
Engels. Il tradimento della loro dottrina perpetrato dalle tendenze
socialsciovinista e kautskiana oggi dominanti si esprime con
particolare rilievo nell'oblio di questa propaganda, di questa
agitazione da parte dell'una e dell'altra.
La
sostituzione dello Stato proletario allo Stato borghese non è
possibile senza rivoluzione violenta. La soppressione dello Stato
proletario, cioè la soppressione di ogni Stato, non è possibile che
per via di "estinzione".
Marx
ed Engels svilupparono queste concezioni in modo particolareggiato e
concreto, studiando ogni situazione rivoluzionaria particolare,
analizzando gli insegnamenti forniti dall'esperienza di ogni
rivoluzione. Passiamo a questa parte, - indubbiamente la più
importante, - della loro dottrina.
II.
Lo Stato e la rivoluzione. L'esperienza del 1848-1851
1.
La vigilia della rivoluzione
Le
prime opere del marxismo giunto a maturità, la Miseria della
filosofia e il Manifesto del Partito comunista, appartengono appunto
al periodo che precede immediatamente la rivoluzione del 1848. Grazie
a questa circostanza, noi troviamo in esse, in una certa misura,
accanto all'esposizione dei princípi generali del marxismo, un
riflesso della situazione rivoluzionaria concreta di quel tempo;
conviene quindi, io credo, studiare ciò che gli autori di queste
opere dicono dello Stato, immediatamente prima di esporre le loro
conclusioni sull'esperienza degli anni 1848-1851.
"
...La classe lavoratrice scrive Marx nella Miseria della filosofia -
sostituirà, nel corso del suo sviluppo, all'antica società civile
un'associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non
vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il potere
politico è precisamente il riassunto ufficiale dell'antagonismo
[delle classi] nella società civile" [11] (p. 182, ed. tedesca,
1885).
E'
istruttivo mettere a confronto questa esposizione generale dell'idea
della scomparsa dello Stato dopo l'abolizione delle classi con
l'esposizione fattane nel Manifesto del Partito comunista, scritto da
Marx e da Engels alcuni mesi più tardi, cioè nel novembre del 1847.
"...Tratteggiando
le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo
seguito la guerra civile più o meno occulta entro la società
attuale fino al momento in cui essa esplode in una rivoluzione
aperta, e col rovesciamento violento della borghesia il proletariato
stabilisce il suo dominio...
"...Abbiamo
già visto sopra come il primo passo nella rivoluzione operaia sia
l'elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della
democrazia.
"Il
proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare
alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare
tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire
del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per
aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze
produttive" [12] (pp. 31 e 37, settima edizione tedesca, 1906).
Vediamo
qui formulata una delle più notevoli e importanti idee del marxismo
a proposito dello Stato, l'idea della "dittatura del
proletariato" ( espressione che Marx ed Engels cominciano ad
usare dopo la Comune di Parigi) vi troviamo in seguito una
definizione dello Stato del più alto interesse e che fa anch'essa
parte delle "parole dimenticate" del marxismo: "lo
Stato, vale a dire il proletariato organizzato come classe
dominante".
Questa
definizione dello Stato non solo non è mai stata commentata nella
letteratura di propaganda e di agitazione che predomina nei partiti
socialdemocratici ufficiali. Peggio ancora, essa è stata dimenticata
appunto perché è assolutamente inconciliabile col riformismo e
perché contrasta in modo irriducibile con i pregiudizi
opportunistici abituali e con le illusioni piccolo-borghesi sullo
"sviluppo pacifico della democrazia".
Il
proletariato ha bisogno di uno Stato, ripetono tutti gli
opportunisti, i socialsciovinisti e i kautskiani, assicurando che
questa è la dottrina di Marx, ma "dimenticando" di
aggiungere che innanzi tutto il proletariato, secondo Marx, ha
bisogno unicamente di uno Stato in via di estinzione, organizzato
cioè in modo tale che cominci subito ad estinguersi, e non possa non
estinguersi. E, in secondo luogo, che i lavoratori hanno bisogno
dello "Stato", "cioè del proletariato organizzato
come classe dominante".
Lo
Stato è un'organizzazione particolare della forza, è
l'organizzazione della violenza destinata a reprimere una certa
classe. Qual è, dunque, la classe che il proletariato deve
reprimere? Evidentemente una sola: la classe degli sfruttatori, vale
a dire la borghesia. I lavoratori hanno bisogno dello Stato solo per
reprimere la resistenza degli sfruttatori, e solo il proletariato è
in grado di dirigere e di attuare questa repressione, perché il
proletariato è la sola classe rivoluzionaria fino in fondo, la sola
classe capace di unire tutti i lavoratori e tutti gli sfruttati nella
lotta contro la borghesia, per soppiantarla completamente.
Le
classi sfruttatrici hanno bisogno del dominio politico per il
mantenimento dello sfruttamento, vale a dire nell'interesse egoistico
di un'infima minoranza contro l'immensa maggioranza del popolo. Le
classi sfruttate hanno bisogno del dominio politico per sopprimere
completamente ogni sfruttamento, vale a dire nell'interesse
dell'immensa maggioranza del popolo, contro l'infima minoranza dei
moderni schiavisti: i proprietari fondiari e i capitalisti.
I
democratici piccolo-borghesi, questi sedicenti socialisti che hanno
sostituito alla lotta delle classi le loro fantasticherie sull'intesa
fra le classi, si sono rappresentati anche la trasformazione
socialista come una fantasticheria; non come l'abbattimento del
dominio della classe sfruttatrice, ma come la sottomissione pacifica
della minoranza alla maggioranza, consapevole dei propri compiti.
Questa utopia piccolo-borghese, indissolubilmente legata al
riconoscimento di uno Stato al di sopra delle classi, praticamente
non ha portato ad altro che al tradimento degli interessi delle
classi lavoratrici, come è stato provato, per esempio, dalla storia
delle rivoluzioni francesi del 1848 e del 1871, come è stato provato
dall'esperienza della partecipazione "socialista" ai
ministeri borghesi in Inghilterra, in Francia, in Italia e altrove
alla fine del secolo decimonono e all'inizio del secolo ventesimo.
Marx
lottò tutta la vita contro un tale socialismo piccolo-borghese,
risuscitato oggi in Russia dai partiti socialista-rivoluzionario e
menscevico. Marx sviluppò la dottrina della lotta di classe in modo
coerente, ricavando da essa la dottrina del potere politico, dello
Stato.
L'abbattimento
del dominio borghese è possibile soltanto ad opera del proletariato,
come classe particolare, preparata a questo rovesciamento dalle
proprie condizioni economiche di esistenza che gli danno la
possibilità e la forza di compierlo. Mentre la borghesia fraziona,
disperde la classe contadina e tutti gli strati piccolo-borghesi,
essa concentra, raggruppa e organizza il proletariato. Grazie alla
sua funzione economica nella grande produzione, solo il proletariato
è capace di essere la guida di tutti i lavoratori e di tutte le
masse sfruttate, che la borghesia spesso sfrutta, opprime, schiaccia
non meno e anche più dei proletari, ma che sono incapaci di lottare
indipendentemente per la loro emancipazione.
La
dottrina della lotta di classe, applicata da Marx allo Stato e alla
rivoluzione socialista, porta necessariamente a riconoscere il
dominio politico del proletariato, la sua dittatura, il potere cioè
ch'esso non divide con nessuno e che si appoggia direttamente sulla
forza armata delle masse. L'abbattimento della borghesia non è
realizzabile se non attraverso la trasformazione del proletariato in
classe dominante, capace di reprimere la resistenza inevitabile,
disperata della borghesia, di organizzare per un nuovo regime
economico tutte le masse lavoratrici e sfruttate.
Il
potere statale, l'organizzazione centralizzata della forza,
l'organizzazione della violenza, sono necessari al proletariato sia
per reprimere la resistenza degli sfruttatori, sia per dirigere
l'immensa massa della popolazione - contadini, piccola borghesia,
semiproletariato - nell' opera di "avviamento"
dell'economia socialista.
Educando
il partito operaio, il marxismo educa una avanguardia del
proletariato, capace di prendere il potere e di condurre tutto il
popolo al socialismo, capace di dirigere e di organizzare il nuovo
regime, d'essere il maestro, il dirigente, il capo di tutti i
lavoratori, di tutti gli sfruttati, nell'organizzazione della loro
vita sociale senza la borghesia e contro la borghesia. L'opportunismo
oggi dominante educa invece il partito operaio in modo da farne il
rappresentante dei lavoratori meglio retribuiti, che si staccano
dalle masse, "si sistemano" abbastanza comodamente nel
regime capitalistico e vendono per un piatto di lenticchie il loro
diritto di primogenitura, rinunciando cioè alla loro funzione di
guida rivoluzionaria del popolo nella lotta contro la borghesia.
"Lo
Stato, vale a dire il proletariato organizzato come classe
dominante", - questa teoria di Marx è indissolubilmente legata
a tutta la sua dottrina sulla funzione rivoluzionaria del
proletariato nella storia. Questa funzione culmina nella dittatura
proletaria, nel dominio politico del proletariato.
Ma
se il proletariato ha bisogno dello Stato in quanto organizzazione
particolare della violenza contro la borghesia, ne scaturisce
spontaneamente la conclusione: la creazione di una tale
organizzazione è concepibile senza che sia prima annientata,
distrutta la macchina dello Stato che la borghesia ha creato per sé?
Il Manifesto del Partito comunista conduce direttamente a questa
conclusione, ed è di questa conclusione che Marx parla quando fa il
bilancio dell'esperienza della rivoluzione del 1848-l851.
2.
Il bilancio di una rivoluzione
Sul
problema dello Stato che ci interessa, Marx, nella sua opera Il 18
Brumaio di Luigi Bonaparte, fa con questo ragionamento il bilancio
dei risultati della rivoluzione del 1848-l851.
"...Ma
la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando
il purgatorio. Lavora con metodo. Fino al 2 dicembre [1851]"
(data del colpo di Stato di Luigi Bonaparte) "non ha condotto a
termine che la prima metà della sua preparazione; ora sta compiendo
l'altra metà. Prima ha elaborato alla perfezione il potere
parlamentare, per poterlo rovesciare. Ora che ha raggiunto questo
risultato, essa spinge alla perfezione il potere esecutivo, lo riduce
alla sua espressione più pura, lo isola, si leva di fronte ad esso
come l'unico ostacolo, per concentrare contro di esso tutte le sue
forze di distruzione" ( il corsivo è nostro). "E quando la
rivoluzione avrà condotto a termine questa seconda metà del suo
lavoro preparatorio, l'Europa balzerà dal suo seggio e griderà: Ben
scavato, vecchia talpa!
"Questo
potere esecutivo, con la sua enorme organizzazione burocratica e
militare, col suo meccanismo statale complicato e artificiale, con un
esercito di impiegati di mezzo milione accanto a un altro esercito di
mezzo milione di soldati, questo spaventoso corpo parassitario che
avvolge come un involucro il corpo della società francese e ne
ostruisce tutti i pori, si costituì nel periodo della monarchia
assoluta, al cadere del sistema feudale, la cui caduta aiutò a
rendere più rapida." La prima rivoluzione francese sviluppò la
centraIizzazione, "e in pari tempo dovette sviluppare
l'ampiezza, gli attributi e gli strumenti del potere governativo.
Napoleone portò alla perfezione questo meccanismo delIo Stato. La
monarchia legittima e la monarchia di luglio non vi aggiunsero nulla,
eccetto una più grande divisione del lavoro...
"
...La repubblica parlamentare, infine, si vide costretta a rafforzare
nella sua lotta contro la rivoluzione, assieme alle misure di
repressione, gli strumenti e la centralizzazione del potere dello
Stato. Tutti i rivolgimenti politici non fecero che perfezionare
questa macchina, invece di spezzarla" (il corsivo è nostro). "I
partiti che successivamente lottarono per il potere considerarono il
possesso di questo enorme edificio dello Stato come il bottino
principale del vincitore" (Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte,
[13] pp. 98-99, quarta ed. tedesca, Amburgo, 1907).
In
questo ammirevole ragionamento il marxismo fa un grandissimo passo in
avanti in confronto al Manifesto del Partito comunista. Il problema
dello Stato nel Manifesto era posto in modo ancora troppo astratto,
in nozioni e termini dei più generici. Qui il problema è posto
concretamente e la conclusione è estremamente precisa, ben definita,
praticamente tangibile: tutte le rivoluzioni precedenti non fecero
che perfezionare la macchina dello Stato, mentre bisogna spezzarla,
demolirla.
Questa
conclusione è la cosa principale, essenziale della dottrina marxista
sullo Stato. E appunto questa cosa essenziale non solo è stata
completamente dimenticata dai partiti socialdemocratici ufficiali
dominanti, ma è stata perfino snaturata (come vedremo) dal più
eminente teorico della Seconda Internazionale, K. Kautsky.
Nel
Manifesto del Partito comunista si ricavano gli insegnamenti generali
della storia; questi insegnamenti ci mostrano lo Stato come l'organo
del dominio di una classe e ci portano a questa necessaria
conclusione: il proletariato non potrebbe rovesciare la borghesia
senza aver prima conquistato il potere politico, senza essersi
assicurato il dominio politico, senza trasformare lo Stato in
"proletariato organizzato come classe dominante"; e questo
Stato proletario comincerà ad estinguersi subito dopo la sua
vittoria, poichè lo Stato è inutile ed impossibile in una società
senza antagonismi di classe. Il problema di determinare in che cosa
consista - dal punto di vista dello sviluppo storico - questa
sostituzione dello Stato proletario allo Stato borghese qui non è
posto.
Proprio
questo è il problema che Marx pone e risolve nel 1852. Fedele alla
sua filosofia, il materialismo dialettico, Marx prende come base
l'esperienza storica dei grandi anni rivoluzionari 1848-l851. Qui,
come sempre, la dottrina di Marx è il bilancio di un'esperienza,
bilancio illuminato da una profonda concezione filosofica del mondo e
da una vasta conoscenza della storia.
Il
problema dello Stato si pone in modo concreto: come è sorto
storicamente lo Stato borghese, la macchina statale necessaria al
dominio della borghesia ? Quali trasformazioni, quali evoluzioni ha
subito nel corso delle rivoluzioni borghesi e di fronte ai movimenti
autonomi delle classi oppresse? Quali sono i compiti del proletariato
rispetto a questa macchina statale ?
Il
potere statale centralizzato, proprio della società borghese,
apparve nel periodo della caduta dell'assolutismo. Le due istituzioni
più caratteristiche di questa macchina statale sono: la burocrazia e
l'esercito permanente. Marx ed Engels parlano molte volte, nelle loro
opere, dei mille legami che collegano queste istituzioni appunto con
la borghesia. L'esperienza acquisita da ogni lavoratore gli spiega in
modo estremamente evidente e convincente questi legami. La classe
operaia impara a conoscerli a proprie spese. Per questo essa afferra
con tanta facilità ed assimila così bene la scienza che afferma
l'ineluttabilità di questi legami, scienza che i democratici
piccolo-borghesi negano per ignoranza o per leggerezza, quando non
abbiano la leggerezza ancora maggiore di ammetterla "in
generale", trascurando però di trarne le corrispondenti
conclusioni pratiche.
La
burocrazia e l'esercito permanente sono dei "parassiti" sul
corpo della società borghese, parassiti generati dalle
contraddizioni interne che dilaniano questa società, ma parassiti
appunto che ne "ostruiscono" i pori vitali. L'opportunismo
kautskiano, oggi prevalente nella socialdemocrazia ufficiale, ritiene
che questa concezione dello Stato, considerato come organismo
parassitario, sia propria degli anarchici, ed esclusivamente degli
anarchici. Questa deformazione del marxismo è certo, estremamente
vantaggiosa ai piccoli borghesi che hanno portato il socialismo
all'inaudita vergogna di giustificare e di imbellire la guerra
imperialistica applicandole il concetto di "difesa della
patria", ma rimane tuttavia una deformazione incontestabile.
Questo
apparato burocratico e militare si sviluppa, si perfeziona e si
rafforza attraverso le numerose rivoluzioni borghesi di cui l'Europa
è stata teatro dalla caduta del feudalesimo in poi. Tra l'altro, la
piccola borghesia si lascia attrarre dalla parte della grande
borghesia, ed è sottomessa a quest'ultima, in misura notevole
proprio per mezzo di questo apparato che dà agli strati superiori
dei contadini, dei piccoli artigiani, dei commercianti, ecc. impieghi
relativamente comodi, tranquilli ed onorifici e che pongono i loro
titolari al di sopra del popolo. Si pensi a quello che è avvenuto in
sei mesi, dopo il 27 febbraio 1917, in Russia: i posti di funzionari,
una volta riservati di preferenza agli ultrareazionari, sono divenuti
il bottino dei cadetti, dei menscevichi e dei
socialisti-rivoluzionari. Non si è pensato, in fondo, a nessuna
riforma seria; si è cercato di rinviare le riforme "fino
all'Assemblea costituente", e di rinviare a poco a poco
l'Assemblea costituente fino alla fine della guerra! Ma per la
divisione del bottino, per l'attribuzione di sinecure ministeriali,
di sottosegretariati di Stato, di posti di governatori generali, ecc.
ecc. non si è perso tempo e non si è aspettata nessuna Assemblea
costituente! Il giuoco delle combinazioni ministeriali non è stato,
in fondo, che l'espressione di questa divisione e nuova spartizione
del "bottino" alla quale si procede, dall'alto al basso, in
tutto il paese, in tutte le amministrazioni centrali e locali. E'
chiaro il risultato, il risultato obiettivo, dopo sei mesi - dal 27
febbraio al 27 agosto 1917 - di tutto ciò: le riforme sono rinviate,
la spartizione degli impieghi è compiuta e gli "errori"
commessi in questa spartizione sono stati corretti con qualche nuova
spartizione.
Ma
più si procede a "nuove spartizioni" dell'apparato
amministrativo fra i diversi partiti borghesi e piccolo-borghesi
(cadetti. socialisti-rivoluzionari e menscevichi, se si prende
l'esempio della Russia), e con maggiore evidenza appare alle classi
oppresse, e al proletariato che ne è il capo, la loro ostilità
irreducibile alla società borghese nel suo insieme. Di qui la
necessità per tutti i partiti borghesi, anche i più democratici e
"democratici rivoluzionari", di accentuare la repressione
contro il proletariato rivoluzionario, di rafforzare l'apparato di
coercizione, cioè questa stessa macchina statale. Questo corso degli
avvenimenti obbliga perciò la rivoluzione a "concentrare tutte
le sue forze di distruzione" contro il potere dello Stato; le
impone il compito non di migliorare la macchina statale, ma di
demolirla, di distruggerla.
Non
le deduzioni logiche, ma il corso reale degli avvenimenti,
l'esperienza vissuta del 1848-1851, hanno condotto a porre il
problema in questi termini. Fino a che punto Marx si attenga
strettamente alla base reale della esperienza storica, è dimostrato
dal fatto che nel 1852 egli non si domanda ancora in concreto che
cosa si debba sostituire a questa macchina dello Stato che deve
essere distrutta. L'esperienza non aveva allora fornito degli esempi
che potessero far sorgere questa questione, che solo più tardi, nel
1871, la storia mise all'ordine del giorno.
Nel
1852 si poteva unicamente constatare, con la precisione propria delle
scienze naturali, che la rivoluzione proletaria affrontava il compito
di "concentrare tutte le sue forze di distruzione" contro
il potere dello Stato, il compito di "spezzare" la macchina
statale.
Si
potrebbe a questo punto porre la domanda se sia giusto generalizzare
l'esperienza, le osservazioni e le conclusioni Marx e applicarle a un
campo più vasto della storia di tre anni della Francia: daI 1848 al
1851. Ricordiamo innanzi tutto, per analizzare la questione,
un'osservazione di Engels. Passeremo poi all'esame dei fatti.
"...La
Francia - scriveva Engels nella prefazione alla terza edizione del 18
Brumaio - è il paese in cui le lotte di classe della storia vennero
combattute sino alla soluzione decisiva più che in qualsiasi altro
luogo; e in cui quindi anche le mutevoli forme politiche, dentro alle
quali quelle lotte si svolgono e in cui si riassumono i loro
risultati, prendono i contorni più netti. Centro del feudalesimo nel
medioevo, paese classico, a partire dal Rinascimento, della monarchia
unitaria a poteri limitati, la Francia ha, con La Grande Rivoluzione,
distrutto il feudalesimo e fondato il puro dominio della borghesia,
in forma classica come nessun altro paese europeo. Anche la lotta del
proletariato in ascesa contro la borghesia dominante assume qui una
forma acuta, che altrove è sconosciuta" [14] (p. 4, edizione
del 1907).
Quest'ultima
osservazione è invecchiata, poichè dopo il 1871 la lotta
rivoluzionaria del proletariato francese ha subíto una interruzione;
interruzione però che, per quanto lunga, non esclude affatto che la
Francia possa, nel corso della futura rivoluzione proletaria,
rivelarsi ancora una volta come il paese classico della lotta delle
classi condotta risolutamente fino in fondo.
Ma
gettiamo uno sguardo d'insieme sulla storia dei paesi avanzati alla
fine del secolo decimonono e al principio del secolo ventesimo.
Vedremo come, più lentamente, in forme più varie, su un'area molto
più estesa, si sia svolto lo stesso processo: da un lato,
l'elaborazione di un "potere parlamentare", tanto nei paesi
repubblicani (Francia, America, Svizzera), quanto in quelli
monarchici (Inghilterra, Germania, fino a un certo punto, Italia,
paesi scandinavi, ecc.); dall'altro, la lotta per il potere dei
diversi partiti borghesi e piccolo-borghesi che si dividono e si
ridistribuiscono il "bottino" degli incarichi statali,
mentre immutate restano le basi del regime borghese; finalmente un
processo di perfezionamento e di rafforzamento del "potere
esecutivo", del suo apparato burocratico e militare.
Non
v'è alcun dubbio che questi sono i caratteri comuni a tutta
l'evoluzione moderna degli Stati capitalistici in generale. In tre
anni, dal 1848 al 1851, la Francia mostrò, in una forma rapida,
netta e concentrata, i processi di sviluppo propri dell'insieme del
mondo capitalistico.
L'imperialismo
- epoca del capitale bancario e dei giganteschi monopoli
capitalistici, epoca in cui il capitalismo monopolistico si trasforma
in capitalismo monopolistico di Stato - mostra in modo particolare lo
straordinario consolidamento della "macchina statale",
l'inaudito accrescimento del suo apparato burocratico e militare per
accentuare la repressione contro il proletariato, sia nei paesi
monarchici che nei più liberi paesi repubblicani.
La
storia universale pone oggi, senza alcun dubbio, e su scala
incomparabilmente più ampia che neI 1852, il compito della
"concentrazione di tutte le forze" della rivoluzione
proletaria per la "distruzione" della macchina statale.
Con
che cosa il proletariato la sostituirà? La Comune di Parigi ci ha
fornito a questo proposito gli esempi più istruttivi.
3.
Come Marx poneva la questione nel 1852 [15]
Mehring
pubblicava nel 1907 nella Neue Zeit ( XXV, 2, 164 ) alcuni estratti
di una lettera di Marx a Weydemeyer, del 5 marzo 1852. Questa lettera
contiene fra l'altro il seguente importantissimo passo:
"Per
quello che mi riguarda, a me non appartiene né il merito di aver
scoperto l'esistenza delle classi nella società moderna né quello
di aver scoperto la lotta tra di esse. Già molto tempo prima di me
degli storici borghesi avevano esposto la evoluzione storica di
questa lotta delle classi, e degli economisti borghesi avevano
esposto l'anatomia economica delle classi. Quel che io ho fatto di
nuovo è stato di dimostrare: l. che l'esistenza delle classi è
soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della
produzione [historische Entwicklungsphasen der Produktion]; 2. che la
lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del
proletariato; 3. che questa dittatura stessa costituisce soltanto il
passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza
classi...". [16]
In
queste righe Marx è riuscito in primo luogo a esprimere con una
impressionante nitidezza l'elemento essenziale e fondamentale che
distingue la sua dottrina dalle dottrine dei più profondi e avanzati
pensatori della borghesia. In secondo luogo, egli ha qui indicato la
sostanza della sua dottrina dello Stato.
L'elemento
essenziale della dottrina di Marx è la lotta di classe. Cosí si
dice e si scrive molto spesso. Ma questo non è vero e da questa
affermazione errata deriva, di solito, una deformazione opportunista
del marxismo, un travestimento del marxismo nel senso di renderlo
accettabile alla borghesia. Perchè la dottrina della lotta di classe
non è stata creata da Marx, ma dalla borghesia prima di Marx. e può,
in generale, essere accettata dalla borghesia. Colui che si
accontenta di riconoscere la lotta delle classi non è ancora un
marxista, e può darsi benissimo che egli non esca dai limiti del
pensiero borghese e dalla politica borghese. Ridurre il marxismo alla
dottrina della lotta delle classi, vuol dire mutilare il marxismo,
deformarlo, ridurlo a ciò che la borghesia può accettare. Marxista
è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle
classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato. In
questo consiste la differenza più profonda tra il marxista e il
banale piccolo-borghese (e anche il grande). E' questo il punto
attorno al quale bisogna mettere alla prova la comprensione e il
riconoscimento effettivi del marxismo. E non vi è da meravigliarsi
che, nel momento in cui la storia dell'Europa ha condotto la classe
operaia a porsi praticamente questa questione, non solo tutti gli
opportunisti e i riformisti, ma anche tutti i "kautskiani"
(gente che oscilla tra il riformismo e il marxismo) abbiano rivelato
di essere dei miserabili filistei e dei democratici piccolo-borghesi
che negano la dittatura del proletariato. L'opuscolo di Kautsky La
dittatura del proletariato, uscito nell'agosto 1918, cioè molto
tempo dopo la pubblicazione della prima edizione del presente libro,
è un modello di deformazione piccolo-borghese del marxismo e di vile
rinuncia ad esso nei fatti, unite a un riconoscimento ipocrita di
esso a parole (si veda il mio opuscolo: La rivoluzione proletaria e
il rinnegato Kautsky, Pietrogrado e Mosca 1918).
L'opportunismo
contemporaneo, personificato dal suo maggiore rappresentante, l'ex
marxista K. Kautsky, rientra completamente nella caratteristica
attribuita da Marx alla posizione borghese, perchè esso riconosce la
lotta di classe soltanto nei limiti dei rapporti borghesi. (Ma entro
questi limiti, nel quadro di questi rapporti, nessun liberale colto
si rifiuta di riconoscere "in linea di principio" la lotta
di classe!) L'opportunismo non porta il riconoscimento della lotta di
classe sino al punto precisamente essenziale, sino al periodo del
passaggio dal capitalismo al comunismo, sino al periodo
dell'abbattimento della borghesia e del suo annientamento completo.
In realtà, questo periodo è inevitabilmente un periodo di lotta di
classe di un'asprezza inaudita, un periodo in cui le forme di questa
lotta diventano quanto mai acute, e quindi anche lo Stato di questo
periodo deve essere uno Stato democratico in modo nuovo (per i
proletari e i non possidenti in generale), e dittatoriale in modo
nuovo (contro la borghesia).
Ancora.
L'essenza della dottrina dello Stato di Marx può essere compresa
fino in fondo soltanto da colui che comprende che la dittatura di una
sola classe è necessaria non solo per ogni società classista in
generale, non solo per il proletariato dopo aver abbattuto la
borghesia, ma per un intero periodo storico, che separa il
capitalismo della "società senza classi", dal comunismo.
Le forme degli Stati borghesi sono straordinariamente varie, ma la
loro sostanza è unica: tutti questi Stati sono in un modo o
nell'altro, ma in ultima analisi, necessariamente, una dittatura
della borghesia. Il passaggio dal capitalismo al comunismo,
naturalmente, non può non produrre un'enorme abbondanza e varietà
di forme politiche, ma la sostanza sarà inevitabilmente una sola: la
dittatura del proletariato.
III.
Lo Stato e la rivoluzione.
L'
esperienza della Comune di Parigi (1871).
L'analisi
di Marx
1.
In che cosa consiste l'eroismo del tentativo dei comunardi?
E'
noto che alcuni mesi prima della Comune, nell' autunno del 1870, Marx
metteva in guardia gli operai parigini, mostrando loro che ogni
tentativo di rovesciare il governo sarebbe stato una sciocchezza
dettata dalla disperazione [17]. Ma quando, nel marzo 1871, la
battaglia decisiva fu imposta agli operai, ed essi l'accettarono
cosicchè l'insurrezione divenne un fatto compiuto, Marx, nonostante
i cattivi presagi, salutò con entusiasmo la rivoluzione proletaria.
Egli non si ostinò a condannare per pedanteria un movimento
"inopportuno", come fece Plekhanov, il tristemente celebre
rinnegato russo del marxismo, che nei suoi scritti del novembre 1905
incoraggiava gli operai e i contadini alla lotta e, dopo il dicembre
1905, gridava alla maniera dei liberali: "Non bisognava prendere
le armi".
Marx
non si limitò tuttavia ad entusiasmarsi per l'eroismo dei comunardi
che, com'egli diceva, "davano l'assalto al cielo". Nel
movimento rivoluzionario delle masse, benchè esso non avesse
raggiunto il suo scopo, Marx vide una esperienza storica di enorme
importanza, un sicuro passo in avanti della rivoluzione proletaria
mondiale, un tentativo pratico più importante di centinaia di
programmi e di ragionamenti. Analizzare questa esperienza, ricavarne
delle lezioni di tattica, rivedere, sulla base di questa esperienza,
la sua teoria - questo fu il compito che Marx si pose.
L'unico
"emendamento" che Marx giudicò necessario apportare al
Manifesto del Partito comunista, lo fece sulla base dell'esperienza
rivoluzionaria dei comunardi di Parigi.
L'ultima
prefazione a una nuova edizione tedesca del Manifesto del Partito
comunista firmata insieme dai due autori porta la data del 24 giugno
1872. In questa prefazione Karl Marx e Friedrich Engels dicono che il
programma del Manifesto del Partito comunista "è oggi qua e là
invecchiato".
"...La
Comune, specialmente, - essi aggiungono, - ha fornito la prova che
"la classe operaia non può impossessarsi puramente e
semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto
per i suoi propri fini"..." . [18]
Le
ultime parole, fra virgolette, di questa citazione sono prese dagli
autori dall'opera di Marx: La guerra civile in Francia. Così, a
questo insegnamento principale e fondamentale della Comune di Parigi,
venne attribuita da Marx ed Engels un'importanza talmente grande da
trarne un emendamento sostanziale al Manifesto del Partito comunista.
E'
estremamente caratteristico che gli opportunisti abbiano snaturato
proprio questo emendamento sostanziale; e i nove decimi, se non i
novantanove centesimi, dei lettori del Manifesto del Partito
comunista non ne afferrano certamente la portata. Su questa
deformazione parleremo in particolare, in un capitolo successivo
dedicato in modo speciale alle deformazioni. Qui basta rilevare che
l'"interpretazione" corrente, volgare, della famosa formula
di Marx, da noi citata, è che Marx vi avrebbe sottolineato l'idea
dell'evoluzione lenta, in contrapposizione con la conquista del
potere, ecc.
In
realtà, è proprio il contrario. L'idea di Marx è che la classe
operaia deve spezzare, demolire la "macchina statale già
pronta", e non limitarsi semplicemente ad impossessarsene.
Il
12 aprile 1871, vale a dire precisamente durante la Comune, Marx
scriveva a Kugelmann:
"...Se
tu rileggi l'ultimo capitolo del mio 18 Brumaio troverai che io
affermo che il prossimo tentativo della rivoluzione francese non
consisterà nel trasferire da una mano ad un'altra la macchina
militare e burocratica, come è avvenuto fino ad ora, ma nello
spezzarla" (il corsivo è di Marx; zerbrechen nell'originale) "e
che tale è la condizione preliminare di ogni reale rivoluzione
popolare sul Continente. In questo consiste pure il tentativo dei
nostri eroici compagni parigini" [19] (Neue Zeit, XX, I,
1901-1902. p. 709). (Le lettere di Marx a Kugelmann sono state
pubblicate in russo almeno in due edizioni, una delle quali da me
curata e preceduta da una mia prefazione.)
"Spezzare
la macchina burocratica e militare": in queste parole è
espresso in modo incisivo l'insegnamento principale del marxismo sui
compiti del proletariato nella rivoluzione per ciò che riguarda lo
Stato. E proprio questo è l'insegnamento che non solo è stato
assolutamente dimenticato, ma addirittura deformato
dall'"interpretazione" dominante, kautskiana, del marxismo!
Quanto
al passo del 18 Brumaio al quale Marx si riferisce, l'abbiamo citato
più sopra integralmente.
E'
interessante segnalare soprattutto due punti del passo citato da
Marx. Anzitutto Marx limita la sua conclusione al Continente. Questo
era comprensibile nel 1871, quando l'Inghilterra era ancora il
modello d'un paese capitalistico puro, ma senza militarismo e in
misura notevole senza burocrazia. Perciò Marx escludeva
l'Inghilterra, dove la rivoluzione, e anche una rivoluzione popolare,
si presentava ed era allora possibile senza la condizione preliminare
della distruzione della "macchina statale già pronta".
Attualmente,
nel 1917, nell'epoca della prima grande guerra imperialista, questa
riserva di Marx cade: l'Inghilterra e l'America, che erano, in tutto
il mondo, le maggiori e le ultime rappresentanti della "libertà"
anglosassone per quanto riguarda l'assenza di militarismo e di
burocrazia, sono precipitate interamente nel lurido, sanguinoso
pantano, comune a tutta Europa, delle istituzioni militari e
burocratiche che tutto sottomettono a sé e tutto comprimono. Oggi,
in Inghilterra e in America, la "condizione preliminare di ogni
reale rivoluzione popolare" è la rottura, la distruzione della
"macchina statale già pronta" (portata in questi paesi nel
1914-1917 a una perfezione "europea", imperialistica).
In
secondo luogo, merita un' attenzione particolare la osservazione
straordinariamente profonda di Marx che la distruzione della macchina
burocratica e militare dello Stato è "la condizione preliminare
di ogni reale rivoluzione popolare". Questo concetto di
rivoluzione "popolare" sembra strano in bocca a Marx, e i
plekhanovisti e i menscevichi russi, questi seguaci di Struve che
vogliono farsi passare per marxisti, potrebbero dire che questa
espressione di Marx è un "lapsus". Essi hanno deformato il
marxismo in modo così piattamente liberale che nulla esiste per loro
all'infuori dell'antitesi: rivoluzione borghese o rivoluzione
proletaria, e anche quest'antitesi è da essi concepita nel modo più
scolastico che si possa immaginare.
Se
si prendono come esempio le rivoluzioni del ventesimo secolo, bisogna
ben riconoscere che sia la rivoluzione portoghese che la rivoluzione
turca furono rivoluzioni borghesi. Ma né l'una né l'altra furono
"popolari"; né nell'una né nell'altra, infatti, la massa
del popolo, la sua stragrande maggioranza, agì in modo attivo,
indipendente, con le sue particolari esigenze economiche e politiche.
La rivoluzione borghese russa del 1905-1907, invece, pur non avendo
ottenuto i "brillanti" successi riportati in certi momenti
dalle rivoluzioni portoghese e turca, fu incontestabilmente una
rivoluzione "veramente popolare", poichè la massa del
popolo, la sua maggioranza, i suoi strati sociali "inferiori",
più profondi, oppressi dal giogo e dallo sfruttamento, si
sollevarono in modo indipendente e lasciarono su tutta la rivoluzione
l'impronta delle loro esigenze, dei loro tentativi di costruire a
modo loro una nuova società al posto dell'antica ch'essi
distruggevano.
Nell'Europa
del 1871, il proletariato non formava la maggioranza del popolo in
nessun paese del Continente. Una rivoluzione poteva essere
"popolare", mettere in movimento la maggioranza effettiva
soltanto a condizione di abbracciare il proletariato e i contadini.
Queste due classi costituivano allora il "popolo". Queste
due classi sono unite dal fatto che la "macchina burocratica e
militare dello Stato" le opprime, le schiaccia, le sfrutta.
Spezzare questa macchina, demolirla, ecco il vero interesse del
"popolo", della maggioranza del popolo, degli operai e
della maggioranza dei contadini, ecco la "condizione
preliminare" della libera alleanza dei contadini poveri con i
proletari. Senza quest'alleanza non è possibile una democrazia
salda, non è possibile una trasformazione socialista.
E'
noto che la Comune di Parigi si era aperta una strada verso questa
alleanza, ma non raggiunse il suo scopo per ragioni di ordine interno
ed esterno.
Parlando
quindi di una "reale rivoluzione popolare", senza
dimenticare affatto le particolarità della piccola borghesia (delle
quali parlò molto e spesso), Marx teneva dunque rigorosamente conto
dei reali rapporti di forza fra le classi della maggior parte degli
Stati continentali dell'Europa del 1871. D'altra parte egli costatava
che gli operai e i contadini sono egualmente interessati a spezzare
la macchina statale, che ciò li unisce e pone di fronte a loro il
compito comune di sopprimere il "parassita" e di
sostituirlo con qualche cosa di nuovo.
Con
che cosa precisamente ?
2.
Con che cosa sostituire la macchina statale spezzata?
A
questa domanda Marx non dava ancora, nel 1847, nel Manifesto del
Partito comunista, che una risposta puramente astratta; per meglio
dire indicava i problemi e non i mezzi per risolverli. Sostituire la
macchina dello Stato spezzata con 1'"organizzazione del
proletariato come classe dominante", con la "conquista
della democrazia": questa era la risposta del Manifesto del
Partito comunista.
Senza
cadere nell'utopia, Marx aspettava dall'esperienza di un movimento di
massa la risposta alla questione: quali forme concrete avrebbe
assunto questa organizzazione del proletariato come classe dominante
e in che modo precisamente questa organizzazione avrebbe coinciso con
la più completa e conseguente "conquista della democrazia".
Nella
Guerra civile in Francia Marx sottopone l'esperienza della Comune,
per quanto breve essa sia stata, a un'analisi attentissima. Citiamo i
passi principali di questo scritto:
Nel
secolo decimonono, trasmesso dal medioevo, si sviluppava "il
potere statale centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti:
esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura".
A misura che l'antagonismo di classe tra capitale e lavoro si
accentuava, "il potere dello Stato assumeva sempre più il
carattere [...] di forza pubblica organizzata per l'asservimento
sociale, di uno strumento di dispotismo di classe. Dopo ogni
rivoluzione che segnava un passo avanti nella lotta di classe, il
carattere puramente repressivo del potere dello Stato risaltava in
modo sempre più evidente". Dopo la rivoluzione del 1848-1849 il
potere dello Stato diviene uno "strumento pubblico di guerra del
capitale contro il lavoro". Il Secondo Impero non fa che
consolidarlo.
"La
Comune fu l'antitesi diretta dell'Impero." "Fu la forma
positiva" di "una repubblica che non avrebbe dovuto
eliminare soltanto la forma monarchica del dominio di classe, ma lo
stesso dominio di classe...".
In
che cosa consisteva questa forma "positiva" di repubblica
proletaria, socialista? Quale era lo Stato ch'essa aveva cominciato a
creare?
"...Il
primo decreto della Comune fu la soppressione dell'esercito
permanente, e la sostituzione ad esso del popolo armato..." [20]
Questa
rivendicazione figura oggi nel programma di tutti i partiti che
desiderano chiamarsi socialisti. Ma quel che valgono i loro
programmi, lo dimostra nel modo migliore la condotta dei nostri
socialisti-rivoluzionari e dei nostri menscevichi che, appunto dopo
la rivoluzione del 27 febbraio, di fatto si rifiutarono di attuare
questa rivendicazione!
"...La
Comune fu composta dei consiglieri municipali eletti a suffragio
universale nei diversi mandamenti di Parigi, responsabili e
revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano
naturalmente operai, o rappresentanti riconosciuti della classe
operaia... Invece di continuare ad essere agente del governo
centrale, la polizia fu immediatamente spogliata delle sue
attribuzioni politiche e trasformata in strumento responsabile della
Comune revocabile in qualunque momento. Lo stesso venne fatto per i
funzionari di tutte le altre branche dell'amministrazione. Dai membri
della Comune in giù, il servizio pubblico doveva essere compiuto per
salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di
rappresentanza degli alti dignitari dello Stato scomparvero insieme
coi dignitari stessi... Sbarazzatisi dell'esercito permanente e della
polizia, elementi della forza fisica del vecchio governo, la Comune
si preoccupò di spezzare la forza di repressione spirituale, il
"potere dei preti"... I funzionari giudiziari furono
spogliati di quella sedicente indipendenza... dovevano essere
elettivi, responsabili e revocabili...". [21]
La
Comune avrebbe dunque "semplicemente" sostituito la
macchina statale spezzata con una democrazia più completa:
soppressione dell'esercito permanente, assoluta eleggibilità e
revocabilità di tutti i funzionari. In realtà ciò significa
"semplicemente" sostituire - opera gigantesca - a
istituzioni di un certo tipo altre istituzioni basate su princípi
diversi. E' questo precisamente un caso di "trasformazione della
quantità in qualità": da borghese che era, la democrazia,
realizzata quanto più pienamente e conseguentemente sia concepibile,
è diventata proletaria; lo Stato (forza particolare destinata a
opprimere una classe determinata) s'è trasformato in qualche cosa
che non è più propriamente uno Stato.
Ma
la necessità di reprimere la borghesia e di spezzarne la resistenza
permane. Per la Comune era particolarmente necessario affrontare
questo compito, e il non averlo fatto con sufficiente risolutezza è
una delle cause della sua sconfitta. Ma qui l'organo di repressione è
la maggioranza della popolazione, e non più la minoranza, come era
sempre stato nel regime della schiavitù, del servaggio e della
schiavitù salariata. E dal momento che è la maggioranza stessa del
popolo che reprime i suoi oppressori, non c'è più bisogno di una
"forza particolare" di repressione! In questo senso lo
Stato comincia ad estinguersi. Invece delle istituzioni speciali di
una minoranza privilegiata ( funzionari privilegiati, capi
dell'esercito permanente), la maggioranza stessa può compiere
direttamente le loro funzioni, e quanto più il popolo stesso assume
le funzioni del potere statale, tanto meno si farà sentire la
necessità di questo potere.
A
questo proposito è da notare in particolar modo un provvedimento
preso dalla Comune e che Marx sottolinea: la soppressione di tutte le
indennità di rappresentanza, la soppressione dei privilegi pecuniari
dei funzionari, la riduzione degli stipendi assegnati a tutti i
funzionari dello Stato al livello di "salari da operai".
Qui appunto si fa sentire con speciale rilievo la svolta dalla
democrazia borghese alla democrazia proletaria, dalla democrazia
degli oppressori alla democrazia delle classi oppresse, dallo Stato
come "forza particolare" destinata a reprimere una classe
determinata, alla repressione degli oppressori ad opera della forza
generale della maggioranza del popolo, degli operai e dei contadini.
Ed è precisamente su questo punto particolarmente evidente - il più
importante forse nella questione dello Stato - che gli insegnamenti
di Marx sono stati più dimenticati! Gli innumerevoli commenti dei
volgarizzatori non ne fanno cenno! E' "consuetudine" tacere
su questo punto, come su di una "ingenuità" che ha fatto
il suo tempo, esattamente come i cristiani "dimenticarono",
quando il loro culto divenne religione di Stato, le "ingenuità"
del cristianesimo primitivo e il suo spirito democratico
rivoluzionario.
La
riduzione delle retribuzioni degli alti funzionari pare
"semplicemente" l'esigenza di un democratismo ingenuo,
primitivo. Uno dei "fondatori" del moderno opportunismo,
l'ex socialdemocratico Ed. Bernstein, s'è molte volte esercitato a
ripetere banali motteggi borghesi a proposito del democratismo
"primitivo". Come tutti gli opportunisti, come i kautskiani
dei nostri giorni, Bernstein non ha assolutamente compreso che, in
primo luogo, il passaggio dal capitalismo al socialismo è
impossibile senza un certo "ritorno" al democratismo
"primitivo" (come si potrebbe altrimenti far compiere alla
maggioranza della popolazione, e poi alla intera popolazione, le
funzioni dello Stato?); in secondo luogo, che il "democratismo
primitivo" sulla base del capitalismo e della civiltà
capitalistica non è il democratismo primitivo delle epoche
patriarcali e precapitalistiche. La civiltà capitalistica ha creato
la grande produzione, le officine, le ferrovie, la posta, il
telefono, ecc.; e su questa base, l'immensa maggioranza delle
funzioni del vecchio "potere statale" si sono a tal punto
semplificate e possono essere ridotte a così semplici operazioni di
registrazione, d'iscrizione, di controllo, da poter essere benissimo
compiute da tutti i cittadini con un minimo di istruzione e per un
normale "salario da operai"; si può (e si deve) quindi
togliere a queste funzioni ogni minima ombra che dia loro qualsiasi
carattere di privilegio e di "gerarchia".
Eleggibilità
assoluta, revocabilità in qualsiasi momento di tutti i funzionari
senza alcuna eccezione, riduzione dei loro stipendi al livello
abituale del "salario da operaio": questi semplici e
"naturali" provvedimenti democratici, mentre stringono
pienamente in una comunità di interessi gli operai e la maggioranza
dei contadini, servono in pari tempo da passerella tra il capitalismo
e il socialismo. Questi provvedimenti concernono la riorganizzazione
statale, puramente politica, della società; ma essi, naturalmente,
assumono tutto il loro significato e tutta la loro importanza solo in
legame con la "espropriazione degli espropriatori"
realizzata o preparata; in legame cioè con la trasformazione della
proprietà privata capitalistica dei mezzi di produzione in proprietà
sociale.
"La
Comune - scriveva Marx - fece una realtà della frase pubblicitaria
delle rivoluzioni borghesi, il governo a buon mercato, distruggendo
le due maggiori fonti di spese, l'esercito permanente e il
funzionarismo statale". [22]
Fra
i contadini, come fra le altre categorie della piccola borghesia,
solo un'infima minoranza "si eleva", "arriva" nel
senso borghese della parola; solo alcuni individui divengono cioè
delle persone agiate, dei borghesi o dei funzionari con posizione
sicura e privilegiata. L'immensa maggioranza dei contadini, in tutti
i paesi capitalistici in cui esistono dei contadini (e questi paesi
sono la maggioranza), è oppressa dal governo e aspira a rovesciarlo,
aspira ad un governo "a buon mercato". Solo il proletariato
può assolvere questo compito, e assolvendolo egli fa in pari tempo
un passo verso la riorganizzazione socialista dello Stato.
3.
La soppressione del parlamentarismo
"La
Comune - scrisse Marx - non doveva essere un organismo parlamentare,
ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo...
"...Invece
di decidere un volta ogni tre o sei anni quale membro della classe
dominante dovesse mal rappresentare [ver- und zertreten] il popolo
nel Parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo
costituito in comuni così come il suffragio individuale serve ad
ogni altro imprenditore privato per cercare gli operai e gli
organizzatori della sua azienda." [23]
Questa
mirabile critica del parlamentarismo, fatta nel 1871, appartiene oggi
anch'essa, grazie al dominio del socialsciovinismo e
dell'opportunismo, alle "parole dimenticate" del marxismo.
Ministri e parlamentari di professione, traditori del proletariato e
socialisti "d'affari" dei nostri tempi hanno abbandonato
agli anarchici il monopolio della critica del parlamentarismo e per
questa ragione, di eccezionale saviezza, hanno qualificato di
"anarchismo" qualsiasi critica del parlamentarismo! Nulla
di strano quindi che il proletariato dei paesi parlamentari
"progrediti", disgustato dalla vista di "socialisti"
come gli Scheidemann, i David, i Legien, i Sembat, i Renaudel, gli
Henderson, i Vandervelde, gli Staunig, i Branting, i Bissolati e
compagnia, abbia riversato sempre più spesso le sue simpatie
sull'anarco-sindacalismo, per quanto questo sia fratello
dell'opportunismo.
Ma
per Marx la dialettica rivoluzionaria non fu mai quella vuota
fraseologia alla moda, quel gingillo in cui la trasformarono
Plekhanov, Kautsky e altri. Marx seppe romperla implacabilmente con
l'anarchismo per la sua incapacità di utilizzare anche la "stalla"
del parlamentarismo borghese. soprattutto quando è evidente che la
situazione non è rivoluzionaria; ma egli seppe in pari tempo dare
una critica veramente proletaria e rivoluzionaria del
parlamentarismo.
Decidere
una volta ogni qualche anno qual membro della classe dominante debba
opprimere, schiacciare il popolo nel Parlamento: - ecco la vera
essenza del parlamentarismo borghese, non solo nelle monarchie
parlamentari costituzionali, ma anche nelle repubbliche le più
democratiche.
Ma
se si pone la questione dello Stato, se si considera il
parlamentarismo come una delle istituzioni dello Stato, dal punto di
vista dei compiti del proletariato in questo campo, dove è la via
per uscire dal parlamentarismo? Come si può farne a meno?
Siamo
costretti a ripeterlo ancora: gli insegnamenti di Marx, basati sullo
studio della Comune, sono stati dimenticati così bene che il
"socialdemocratico" contemporaneo (si legga: il rinnegato
contemporaneo del socialismo) è veramente incapace di concepire
altra critica del parlamentarismo che non sia quella degli anarchici
o dei reazionari.
Senza
dubbio la via per uscire dal parlamentarismo non è nel distruggere
le istituzioni rappresentative e il principio dell'eleggibilità, ma
nel trasformare queste istituzioni rappresentative da mulini di
parole in organismi che "lavorino" realmente. "La
Comune non doveva essere un organismo parlamentare. ma di lavoro,
esecutivo e legislativo allo stesso tempo."
Un
organismo "non parlamentare, ma di lavoro": questo colpisce
direttamente voi, moderni parlamentari e "cagnolini"
parlamentari della socialdemocrazia! Considerate qualsiasi paese
parlamentare, dall'America alla Svizzera, dalla Francia
all'Inghilterra, alla Norvegia, ecc.: il vero lavoro "di Stato"
si compie fra le quinte, e sono i ministeri, le cancellerie, gli
stati maggiori che lo compiono. Nei Parlamenti non si fa che
chiacchierare, con lo scopo determinato di turlupinare il "popolino".
Questo è talmente vero che anche nella repubblica russa, repubblica
democratica borghese, tutte queste magagne del parlamentarismo si
fanno già sentire ancor prima che essa sia riuscita a darsi un vero
Parlamento. Gli eroi del putrido fi1isteismo, gli Skobelev e gli
Tsereteli, i Cernov e gli Avksentiev, sono riusciti a incancrenire
persino i Soviet, trasformandoli in mulini di parole sul tipo del
parlamentarismo borghese più rivoltante. Nei Soviet i signori
ministri "socialisti" ingannano con la loro fraseologia e
le loro risoluzioni i fiduciosi mugik. Nel governo si balla una
quadriglia permanente, da un lato, per sistemare a turno attorno alla
"torta" dei posticini remunerativi e onorifici il più gran
numero possibile di socialisti-rivoluzionari e di menscevichi;
d'altro lato, per "occupare l' attenzione" del popolo, E
nelle cancellerie, negli stati maggiori "si sbrigano" le
faccende "dello Stato".
In
un articolo di fondo, il Dielo Naroda, organo dei "socialisti
rivoluzionari", partito al governo, confessava recentemente, con
l'impareggiabile franchezza propria della gente della "buona
società", in cui "tutti" si abbandonano alla
prostituzione politica, che anche nei ministeri appartenenti ai
"socialisti" (si passi la parola!), persino in essi tutto
l'apparato amministrativo rimane in fondo lo stesso, funziona come
per il passato e sabota in piena "libertà" le riforme
rivoluzionarie! Ma, anche senza questa confessione, la storia
effettiva della partecipazione dei socialisti-rivoluzionari e dei
menscevichi al governo non è forse la migliore prova di ciò?
L'unica cosa caratteristica è qui che, trovandosi al governo in
compagnia dei cadetti, i signori Cernov, Russanov, Zenzinov e altri
redattori del Dielo Naroda abbiano perduto a tal punto il senso del
pudore da raccontare pubblicamente e senza arrossire, come se si
trattasse di un affare da nulla, che "da loro", nei loro
ministeri, tutto procede come prima!! Fraseologia democratica
rivoluzionaria per abbindolare i sempliciotti di campagna e trafila
burocratica per "farsi ben volere" dai capitalisti: ecco il
fondo di questa "onesta" coalizione.
La
Comune sostituisce questo parlamentarismo venale e corrotto della
società borghese con istituzioni in cui la libertà di opinione e di
discussione non degenera in inganno; poichè i parlamentari debbono
essi stessi lavorare, applicare essi stessi le loro leggi,
verificarne essi stessi i risultati, risponderne essi stessi
direttamente davanti ai loro elettori. Le istituzioni rappresentative
rimangono, ma il parlamentarismo, come sistema speciale, come
divisione del lavoro legislativo ed esecutivo, come situazione
privilegiata per i deputati, non esiste più. Noi non possiamo
concepire una democrazia, sia pur una democrazia proletaria, senza
istituzioni rappresentative, ma possiamo e dobbiamo concepirla senza
parlamentarismo, se la critica della società borghese non è per noi
una parola vuota di senso, se il nostro sforzo per abbattere il
dominio della borghesia è uno sforzo serio e sincero e non una frase
"elettorale" destinata a scroccare voti degli operai, come
lo è per i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari, per gli
Scheidemann e i Legien, i Sembat e i Vandervelde.
E'
molto significativo che Marx, parlando delle funzioni di questo
personale amministrativo necessario alla Comune e alla democrazia
proletaria, scelga come termine di paragone il personale di "ogni
altro imprenditore", cioè un'ordinaria impresa capitalistica
con "operai, sorveglianti e contabili".
In
Marx non v'è un briciolo di utopismo; egli non inventa, non immagina
una società "nuova". No, egli studia, come un processo di
storia naturale, la genesi della nuova società che sorge
dall'antica, le forme di transizione tra l'una e l' altra. Egli si
basa sui fatti, sull' esperienza del movimento proletario di massa e
cerca di trarne insegnamenti pratici. Egli "si mette alla
scuola" della Comune, come tutti i grandi pensatori
rivoluzionari non esitavano a mettersi alla scuola dei grandi
movimenti della classe oppressa, senza mai far loro pedantemente la
"morale" (come faceva Plekhanov dicendo: "Non
bisognava prendere le armi", o Tsereteli: "Una classe deve
sapersi autolimitare").
Non
sarebbe possibile distruggere di punto in bianco, dappertutto,
completamente, la burocrazia. Sarebbe utopia. Ma spezzare subito la
vecchia macchina amministrativa per cominciare immediatamente a
costruirne una nuova, che permetta la graduale soppressione di ogni
burocrazia, non è utopia, è l'esperienza della Comune, è il
compito primordiale e immediato del proletariato rivoluzionario.
Il
capitalismo semplifica i metodi d'amministrazione "dello Stato",
permette di eliminare la "gerarchia" e di ridurre tutto a
un'organizzazione dei proletari (in quanto classe dominante) che
assume, in nome di tutta la società, "operai, sorveglianti e
contabili".
Noi
non siamo degli utopisti. Non "sogniamo" di fare a meno,
dall' oggi al domani, di ogni amministrazione, di ogni
subordinazione; questi sono sogni anarchici, fondati
sull'incomprensione dei compiti della dittatura del proletariato,
sogni che nulla hanno di comune con il marxismo e che di fatto
servono unicamente a rinviare la rivoluzione socialista fino al
giorno in cui gli uomini saranno cambiati. No, noi vogliamo la
rivoluzione socialista con gli uomini quali sono oggi, e che non
potranno fare a meno né di subordinazione, né di controllo, né di
"sorveglianti, né di contabili".
Ma
bisogna subordinarsi all'avanguardia armata di tutti gli sfruttati e
di tutti i lavoratori: al proletariato. Si può e si deve subito,
dall'oggi al domani, cominciare a sostituire la specifica "gerarchia"
dei funzionari statali con le semplici funzioni "di sorveglianti
e di contabili", funzioni che sono sin da ora perfettamente
accessibili al livello generale di sviluppo degli abitanti delle
città e possono facilmente essere compiute per "salari da
operai".
Organizziamo
la grande industria partendo da ciò che il capitalismo ha già
creato; organizziamola noi stessi, noi operai, forti della nostra
esperienza operaia, imponendo una rigorosa disciplina, una disciplina
di ferro, mantenuta per mezzo del potere statale dei lavoratori
armati; riduciamo i funzionari dello Stato alla funzione di semplici
esecutori dei nostri incarichi, alla funzione di "sorveglianti e
ai contabili", modestamente retribuiti, responsabili e
revocabili (conservando naturalmente i tecnici di ogni specie e di
ogni grado): è questo il nostro compito proletario; è da questo che
si può e si deve cominciare facendo la rivoluzione proletaria.
Questo inizio, fondato sulla grande produzione, porta da se alla
graduale "estinzione" di ogni burocrazia, alla graduale
instaurazione di un ordine - ordine senza virgolette, ordine diverso
dalla schiavitù salariata - in cui le funzioni, sempre più
semplificate, di sorveglianza e di contabilità saranno adempiute a
turno, da tutti, diverrano poi un'abitudine e finalmente
scompariranno in quanto funzioni speciali di una speciale categoria
di persone.
Verso
il 1870 un arguto socialdemocratico tedesco considerava la posta come
un modello di impresa socialista, Giustissimo. La posta è
attualmente un'azienda organizzata sul modello del monopolio
capitalistico di Stato. A poco a poco l'imperialismo trasforma tutti
i trust in organizzazioni di questo tipo. I "semplici"
lavoratori, carichi di lavoro e affamati, restano sempre sottomessi
alla stessa burocrazia borghese. Ma il meccanismo della gestione
sociale è già pronto. Una volta abbattuti i capitalisti, spezzata
con la mano di ferro degli operai armati la resistenza di questi
sfruttatori, demolita la macchina burocratica dello Stato attuale,
avremo davanti a noi un meccanismo mirabilmente attrezzato dal punto
di vista tecnico, sbarazzato dal "parassita", e che i
lavoratori uniti possono essi stessi benissimo far funzionare
assumendo tecnici, sorveglianti, contabili e pagando il lavoro di
tutti costoro, come quelli di tutti i funzionari "dello Stato"
in generale, con un salario da operaio. E' questo il compito
concreto, pratico, immediatamente realizzabile nei confronti di tutti
i trust e che libererà dallo sfruttamento i lavoratori, tenendo
conto dell'esperienza praticamente iniziata (soprattutto nel campo
dell'organizzazione dello Stato) dalla Comune.
Tutta
l'economia nazionale organizzata come la posta; i tecnici, i
sorveglianti, i contabili, come tutti i funzionari dello Stato,
retribuiti con uno stipendio non superiore al "salario da
operaio", sotto il controllo e la direzione del proletariato
armato: ecco il nostro fine immediato. Ecco lo Stato, ecco la base
economica dello Stato di cui abbiamo bisogno. Ecco ciò che ci darà
la distruzione del parlamentarismo e il mantenimento delle
istituzioni rappresentative, ecco ciò che sbarazzerà le classi
lavoratrici della prostituzione di queste istituzioni da parte della
borghesia.
4.
L'organizzazione dell'unità nazionale
"...In
un abbozzo sommario di organizzazione nazionale che la Comune non
ebbe il tempo di sviluppare è detto chiaramente che la Comune doveva
essere la forma politica anche del più piccolo borgo..." Le
comuni avrebbero eletto la "delegazione nazionale" di
Parigi.
"...Le
poche ma importanti funzioni che sarebbero ancora rimaste per un
governo centrale, non sarebbero state soppresse, come venne affermato
falsamente in mala fede, ma adempiute da funzionari comunali, e
quindi strettamente responsabili...
"L'unità
della nazione non doveva essere spezzata, anzi doveva essere
organizzata dalla costituzione comunale, e doveva diventare una
realtà attraverso la distruzione di quel potere statale che
pretendeva essere l'incarnazione di questa unità, indipendente e
persino superiore alla nazione stessa, mentre non era che
un'escrescenza parassitaria. Mentre gli organi puramente repressivi
del vecchio potere governativo dovevano essere amputati, le sue
funzioni legittime dovevano essere strappate a una autorità che
usurpava una posizione predominante sulla società stessa, e
restituite agli agenti responsabili della società.! [24]
Sino
a qual punto gli opportunisti della socialdemocrazia contemporanea
non abbiano capito, o per meglio dire, non abbiano voluto capire
queste considerazioni di Marx, è provato nel modo migliore dal libro
Le premesse del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, col
quale il rinnegato Bernstein si è acquistato una fama alla maniera
di Erostrato. Proprio a proposito di questo passo di Marx, Bernstein
scrisse che questo programma "per il suo contenuto politico,
rivela, in tutti i suoi tratti essenziali, una straordinaria affinità
col federalismo di Proudhon... Nonostante tutte le altre divergenze
tra Marx e il "piccolo-borghese" Proudhon [Bernstein scrive
"piccolo-borghese" tra virgolette, le quali, secondo lui,
dovrebbero dare alle sue parole un senso ironico], il loro modo di
vedere, è sotto questo aspetto, il più possibile simile".
Certo, continua Bernstein, l'importanza delle municipalità aumenta,
ma "mi pare cosa dubbia che il primo compito della democrazia
sia l'abolizione [Auflösung, letteralmente: scioglimento,
dissoluzione] degli Stati moderni e un cambiamento [Umwandlung,
metamorfosi] così completo della loro organizzazione come lo
raffigurano Marx e Proudhon: formazione di un'assemblea nazionale di
delegati delle assemblee provinciali o dipartimentali, che a loro
volta sarebbero composte di delegati delle comuni, in modo che le
rappresentanze nazionali nella loro forma attuale scomparirebbero
completamente" (Bernstein, Le premesse, pp. 134 e 136, edizione
tedesca del 1899).
E'
semplicemente mostruoso! Confondere le concezioni di Marx sulla
"soppressione del potere dello Stato parassita" col
federalismo di Proudhon! Ma non è per caso, giacchè
all'opportunista non viene nemmeno in mente che Marx qui non parla
affatto del federalismo in opposizione al centralismo, ma della
demolizione della vecchia macchina dello Stato borghese esistente in
tutti i paesi borghesi.
All'opportunista
viene in mente soltanto ciò che egli vede attorno a se, nel suo
ambiente di filisteismo piccolo-borghese e di stagnazione
"riformista", vale a dire le sole "municipalità"!
Quanto alla rivoluzione del proletariato, l'opportunista ha
disimparato persino a pensarci.
E'
ridicolo. Ma è degno di nota che, su questo punto, nessuno abbia
contraddetto Bernstein. Molti hanno confutato Bernstein, in
particolare Plekhanov nella letteratura russa e Kautsky in quella
europea, ma nessuno dei due ha mai detto niente di questa
deformazione di Marx ad opera di Bernstein.
L'opportunista
ha disimparato così bene a pensare da rivoluzionario e a riflettere
sulla rivoluzione, ch'egli attribuisce del "federalismo" a
Marx, confondendolo così con Proudhon, fondatore dell'anarchismo. E
Kautsky e Plekhanov, che pretendono di essere marxisti ortodossi e di
difendere la dottrina del marxismo rivoluzionario, tacciono su questo
punto! Ecco una delle ragioni essenziali del modo estremamente
banale, proprio tanto dei kautskiani quanto degli opportunisti, su
cui dovremo ritornare, di considerare la differenza esistente tra il
marxismo e l'anarchismo.
Nelle
considerazioni di Marx già citate sull' esperienza della Comune non
c'è la minima traccia di federalismo. Marx è d'accordo con Proudhon
proprio su un punto che l'opportunista Bernstein non vede; Marx
dissente da Proudhon proprio là dove Bernstein vede la concordanza.
Marx
è d' accordo con Proudhon in quanto entrambi sono per la
"demolizione" dell'attuale macchina statale. Questa
concordanza del marxismo con l' anarchismo (sia con Proudhon che con
Bakunin) non vogliono vederla né gli opportunisti né i kautskiani,
perchè su questo punto essi si sono allontanati dal marxismo.
Marx
dissente sia da Proudhon che da Bakunin appunto a proposito del
federalismo (per non parlare poi della dittatura del proletariato).
In linea di principio, il federalismo deriva dalle vedute
piccolo-borghesi dell'anarchismo. Marx è centralista. E in tutti i
passi citati non si troverà la minima rinuncia al centralismo.
Soltanto gente imbevuta di una volgare "fede superstiziosa"
nello Stato può scambiare la distruzione della macchina borghese con
la distruzione del centralismo!
Ma
se il proletariato e i contadini poveri si impadroniscono del potere
statale, si organizzano in piena libertà nelle comuni e coordinano
l'azione di tutte le comuni per colpire il capitale, spezzare la
resistenza dei capitalisti, rimettere a tutta la nazione, a tutta la
società la proprietà privata delle ferrovie, delle officine, della
terra, ecc, non è questo forse centralismo? Non è forse il
centralismo democratico più conseguente, e, con ciò, un centralismo
proletario?
Bernstein
è semplicemente incapace di concepire la possibilità di un
centralismo volontario, di un'unione volontaria delle comuni in
nazione, di una volontaria fusione delle comuni proletarie nell'opera
di distruzione del dominio borghese e della macchina statale
borghese. Bernstein, come ogni filisteo, si rappresenta il
centralismo come un qualcosa che, venendo unicamente dall'alto, non
può essere imposto e mantenuto se non dalla burocrazia e dal
militarismo.
Marx,
quasi avesse previsto che le sue idee potevano essere travisate,
sottolinea intenzionalmente che accusare la Comune di aver voluto
distruggere l'unità nazionale e sopprimere il potere centrale
equivale a commettere scientemente un falso. Marx adopera
intenzionalmente l'espressione "organizzare l'unità della
nazione" per contrapporre il centralismo proletario cosciente,
democratico, al centralismo borghese, militare, burocratico.
Ma...
non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire. Gli opportunisti
della socialdemocrazia contemporanea non vogliono appunto sentir
parlare di distruggere il potere dello Stato, di amputare questo
parassita.
5.
La distruzione dello Stato parassita
Abbiamo
già citato, su questo punto, i passi corrispondenti di Marx;
dobbiamo ora completarli.
"...E'
comunemente destino di tutte le creazioni storiche completamente
nuove di essere prese a torto per riproduzione di vecchie e anche di
defunte forme di vita sociale, con le quali possono avere una certa
rassomiglianza. Così questa nuova Comune, che spezza [bricht] il
moderno potere statale, venne presa a torto per una riproduzione dei
comuni medioevali... una federazione di piccoli Stati, come era stata
sognata da Montesquieu e dai Girondini... una forma esagerata della
vecchia lotta contro l'eccesso di centralizzazione...
"...La
costituzione della Comune avrebbe invece restituito al corpo sociale
tutte le energie sino allora assorbite dallo Stato parassita, che si
nutre alle spalle della società e ne intralcia i liberi movimenti.
Con questo solo atto avrebbe iniziato la rigenerazione della
Francia..
"...In
realtà, la costituzione della Comune metteva i produttori rurali
sotto la direzione intellettuale dei capoluoghi dei loro distretti, e
quivi garantiva loro, negli operai, i naturali tutori dei loro
interessi. L'esistenza stessa della Comune portava con se, come
conseguenza naturale, la libertà municipale locale, ma non più come
un contrappeso al potere dello Stato ormai diventato superfluo..."
[25]
"Distruzione
del potere totale", questa "escrescenza parassitaria",
"amputazione", "demolizione" di questo potere,
"il potere dello Stato ormai diventato superfluo": è in
questi termini che Marx parla dello Stato, giudicando e analizzando
l' esperienza della Comune.
Tutto
ciò è stato scritto circa mezzo secolo fa; ed oggi bisogna
ricorrere quasi a degli scavi archeologici per far penetrare nella
coscienza delle grandi masse questo marxismo non deformato. Le
conclusioni che Marx trasse dall'ultima grande rivoluzione ch'egli
visse, sono state dimenticate proprio quando è giunta l'ora di nuove
grandi rivoluzioni del proletariato.
"
...La molteplicità delle interpretazioni che si danno della Comune e
la molteplicità degli interessi che nella Comune hanno trovato la
loro espressione, mostrano che essa fu una forma politica
fondamentalmente espansiva, mentre tutte le precedenti forme di
governo erano state unilateralmente repressive. Il suo vero segreto
fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe
operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro
la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta.
nella quale si poteva compiere la emancipazione economica del
lavoro...
"...Senza
quest'ultima condizione, la costituzione della Comune sarebbe stata
una cosa impossibile e un inganno..." [26]
Gli
utopisti si sono sempre sforzati di "scoprire" le forme
politiche nelle quali doveva prodursi la trasformazione socialista
della società. Gli anarchici si sono disinteressati della questione
delle forme politiche in generale. Gli opportunisti dell'odierna
socialdemocrazia hanno accettato le forme politiche borghesi dello
Stato democratico parlamentare come un limite al di là del quale è
impossibile andare; si sono rotta la testa a furia di prosternarsi
davanti a questo "modello" e hanno tacciato come anarchico
ogni tentativo di demolire queste forme.
Da
tutta la storia del socialismo e della lotta politica Marx trasse la
conclusione che lo Stato è condannato a scomparire e che la forma
transitoria dello Stato in via di sparizione (transizione dallo Stato
al non-Stato) sarà "il proletariato organizzato come classe
dominante". In quanto alle forme politiche di questo avvenire,
Marx non si preoccupò di scoprirle. Si limitò all'osservazione
esatta della storia francese, alla sua analisi e alla conclusione che
scaturiva dall' anno 1851: le cose marciano verso la distruzione
della macchina dello Stato borghese.
E
quando il movimento rivoluzionario di massa del proletariato scoppiò,
Marx, nonostante l'insuccesso del movimento, nonostante la sua breve
durata e la sua impressionante debolezza, si mise a studiare le forme
ch'esso aveva rivelato.
La
Comune è la forma "finalmente scoperta" dalla rivoluzione
proletaria sotto la quale poteva prodursi la emancipazione economica
del lavoro.
La
Comune è il primo tentativo della rivoluzione proletaria di spezzare
la macchina dello Stato borghese; è la forma politica "finalmente
scoperta" che può e deve sostituire quel che è stato spezzato.
Vedremo
più avanti che le rivoluzioni russe del 1905 e del 1917 continuano,
in una situazione differente, in altre condizioni, l'opera della
Comune e confermano la geniale analisi storica di Marx.
IV.
Seguito. Spiegazioni complementari di Engels
Marx
ha detto ciò che è essenziale sull'importanza dell'esperienza della
Comune. Engels è ritornato più volte su questo tema, interpretando
l'analisi e le conclusioni di Marx e spiegando talvolta altri aspetti
della questione con tale vigore e con tale rilievo che è necessario
soffermarsi in modo particolare su queste spiegazioni.
1.
"La questione delle abitazioni"
Nella
sua opera sulla questione delle abitazioni (1872) Engels si basa già
sull'esperienza della Comune quando, a più riprese, si sofferma sui
compiti della rivoluzione nei confronti dello Stato. E' interessante
vedere come in questo tema concreto appaiano con chiarezza, da un
lato, i tratti di affinità tra lo Stato proletario e lo Stato
attuale, - tratti che permettono in entrambi i casi di parlare di
Stato - e, dall'altro lato, i tratti che li distinguono l'uno
dall'altro, o il passaggio alla soppressione dello Stato.
"Come
risolvere dunque la questione delle abitazioni? Nell'odierna società,
esattamente come si risolve qualsiasi altra questione sociale:
mediante la graduale perequazione economica di domanda ed offerta,
soluzione che crea sempre nuovamente la stessa questione, e che
quindi non è una soluzione. La soluzione che darebbe alla questione
una rivoluzione sociale non dipende soltanto dalle condizioni del
momento, ma anche è connessa ad una serie di questioni di molto
maggior ampiezza, fra le quali una delle più importanti è quella
dell'eliminazione dell'antitesi fra città e campagna. Dato che
noialtri non siamo di quelli che creano dei sistemi utopistici per
l'instaurazione della società futura, dilungarci in proposito
sarebbe superfluo. Però un fatto è sicuro fin da adesso, e cioè
che nelle grandi città vi sono già sufficienti edifici di
abitazioni da permettere di porre immediato riparo, con una
utilizzazione razionale delle abitazioni medesime, ad ogni reale
"insufficienza di abitazioni". Ciò può naturalmente farsi
solo a condizione che siano espropriati gli attuali proprietari o
siano occupate le loro case da parte dei senza tetto o degli operai
che in precedenza vivevano ammassati in numero eccessivo nelle loro
abitazioni; e non appena il proletariato avrà conquistato il potere
politico. una tale misura - prescritta dal bene pubblico - sarà
facile a compiere esattamente quanto sono facili oggi altre
espropriazioni ed occupazioni da parte dell' attuale Stato" [27]
(p. 22, edizione tedesca del 1887).
Non
si prende qui in considerazione il cambiamento di forma del potere
statale, ma soltanto il contenuto della sua attività. Anche per
ordine dello Stato attuale si procede ad espropriazioni e a
requisizioni di alloggi. Dal punto di vista formale, lo Stato
proletario "ordinerà" esso pure delle requisizioni di
alloggi e delle espropriazioni di case. Ma è evidente che il vecchio
apparato esecutivo, la burocrazia legata alla borghesia, sarebbe
semplicemente incapace di applicare le decisioni dello Stato
proletario.
"...D'altronde
si deve costatare che la "effettiva presa di possesso" di
tutti gli strumenti di lavoro, la presa di possesso di tutta
l'industria da parte del popolo lavoratore, sono esattamente il
contrario del "riscatto" proudhoniano. Col riscatto il
singolo lavoratore diviene proprietario dell'abitazione, della
cascina, degli strumenti di lavoro; con l'espropriazione il "popolo
lavoratore" rimane proprietario in toto delle case, delle
fabbriche e degli attrezzi, e - almeno nel periodo di trapasso - sarà
difficile che ne conceda l'usufrutto a singoli o a società senza
corresponsione delle spese. Proprio come l'abolizione della proprietà
fondiaria non è l'abolizione della rendita fondiaria, ma il suo
trasferimento, sia pure in forma modificata, alla società. La presa
di possesso effettiva di tutti gli strumenti di lavoro da parte del
popolo lavoratore non esclude dunque affatto il permanere dei
rapporti di affittanza." [28] (p. 69).
Esamineremo
nel capitolo seguente la questione qui accennata, e cioè quella
delle basi economiche dell'estinzione dello Stato. Engels si esprime
con estrema prudenza dicendo che lo Stato proletario "probabilmente",
"almeno nel periodo transitorio", non distribuirà gli
alloggi gratuitamente. L'affitto degli alloggi, proprietà di tutto
il popolo, a queste o quelle famiglie col corrispettivo di una certa
pigione, suppone dunque la percezione di questa pigione, un certo
controllo e l'istituzione di certe norme di ripartizione degli
alloggi. Tutto ciò esige una certa forma di Stato, ma non rende
affatto necessario uno speciale apparato militare e burocratico, con
funzionari che godano d'una situazione privilegiata. Il passaggio a
uno stato di cose tale in cui gli alloggi possono essere assegnati
gratuitamente è connesso alla totale "estinzione" dello
Stato.
Parlando
dei blanquisti che, dopo la Comune e influenzati dalla sua
esperienza, aderirono alle posizioni di principio del marxismo,
Engels così definisce di sfuggita la loro posizione:
"...necessità
dell'azione politica del proletariato e della sua dittatura, come
fase di transizione verso l'abolizione delle classi e, con esse,
dello Stato..." [29] (p. 55).
Dilettanti
di critica letterale o borghesi "distruttori del marxismo"
vedranno forse una contraddizione tra questo riconoscimento
dell'"abolizione dello Stato" e la negazione di questa
stessa formula, considerata come anarchica, nel passo da noi già
citato dell'Antidühring. Non ci sarebbe di che meravigliarsi nel
vedere gli opportunisti classificare anche Engels fra gli
"anarchici": accusare gli internazionalisti di anarchismo è
un'abitudine oggi sempre più diffusa fra i socialsciovinisti.
Il
marxismo ha sempre insegnato che con l'abolizione delle classi si
compie anche l'abolizione dello Stato. Il passo a tutti noto
dell'Antidühring sull'"estinzione dello Stato" rimprovera
gli anarchici non tanto di essere per l'abolizione dello Stato,
quanto di pretendere che sia possibile abolire lo Stato "dall'oggi
al domani".
Poichè
la dottrina "socialdemocratica" oggi dominante ha
completamente deformato l'atteggiamento del marxismo verso
l'anarchismo circa la questione della soppressione dello Stato, sarà
particolarmente utile ricordare una polemica di Marx e di Engels con
gli anarchici.
2.
Polemica con gli anarchici
Questa
polemica risale al 1873. Marx ed Engels avevano pubblicato, in una
raccolta socialista italiana, [30] degli articoli contro i
proudhoniani, "autonomisti" o "anti-autoritari",
articoli che solo nel 1913 comparvero in traduzione tedesca nella
Neue Zeit.
"...Se
la lotta politica della classe operaia - scriveva Marx deridendo gli
anarchici e la loro negazione della politica - assume forme violente,
se gli operai sostituiscono la loro dittatura rivoluzionaria alla
dittatura della classe borghese, essi commettono il terribile delitto
di leso-principio, perché per soddisfare i loro miserabili bisogni
profani di tutti i giorni, per schiacciare la resistenza della classe
borghese, invece di abbassare le armi e di abolire lo Stato, essi gli
dànno una forma rivoluzionaria e transitoria..." [31] (Neue
Zeit, 1913-1914, A. XXXII, vol. I, p. 40).
E'
contro questa "abolizione" dello Stato, - e solo contro
questa, - che Marx si levava nella sua polemica contro gli anarchici!
Non contro I'idea che lo Stato scompare con la scomparsa delIe
classi, o sarà abolito con la abolizione delIe classi, ma contro la
rinuncia degli operai a fare uso delle armi, della violenza
organizzata, vale a dire dello Stato, che deve servire a "schiacciare
la resistenza deIla classe borghese".
Perchè
non si travisi il vero significato della sua lotta contro
l'anarchismo. Marx sottolinea intenzionalmente "la forma
rivoluzionaria e transitoria"dello Stato necessario al
proletariato. Il proletariato ha bisogno dello Stato solo per un
certo periodo di tempo. Quanto all'abolizione dello Stato, come fine,
noi non siamo affatto in disaccordo con gli anarchici. Affermiamo che
per raggiungere questo fine è indispensabile utilizzare
temporaneamente, contro gli sfruttatori, gli strumenti, i mezzi e i
metodi del potere statale, così com'è indispensabile, per
sopprimere le classi, stabilire la dittatura temporanea della classe
oppressa. Nel porre la questione contro gli anarchici, Marx sceglie
il modo più incisivo e più chiaro: abbattendo il giogo dei
capitalisti, gli operai debbono "deporre le armi" o
rivolgerle contro i capitalisti per spezzare la loro resistenza? E se
una classe fa sistematicamente uso delle armi contro un'altra classe,
che cosa è questo se non una "forma transitoria" di Stato?
Si
domandi quindi ogni socialdemocratico: è così che egli ha posto il
problema dello Stato nella polemica contro gli anarchici? è così
che il problema è stato posto dall'immensa maggioranza dei partiti
socialisti ufficiali della Seconda Internazionale?
Engels
sviluppa le stesse idee in modo ancor più particolareggiato e
popolare. Egli deride innanzi tutto la confusione di idee dei
proudhoniani che si chiamavano "anti-autoritari", negavano
cioè ogni autorità, ogni subordinazione, ogni potere. Prendete una
fabbrica, una ferrovia, un piroscafo in alto mare, - dice Engels, -
non è evidente che senza una certa subordinazione, e quindi senza
una certa autorità o un certo potere, non è possibile far
funzionare nemmeno uno di questi complicati apparati tecnici, fondati
sull'impiego delle macchine e la metodica collaborazione di un gran
numero di persone?
"...Allorchè
io sottoposi simili argomenti ai più furiosi anti-autoritari, -
scrive Engels, - essi non seppero rispondermi che questo: " Ah!
Ciò vero, ma qui non si tratta di un'autorità che noi diamo ai
delegati, ma di un incarico!". Questi signori credono aver
cambiato le cose quando ne hanno cambiato i nomi..." [32]
Dopo
aver così dimostrato che autorità ed autonomia sono nozioni
re1ative, che il campo della loro applicazione varia secondo le
differenti fasi dello sviluppo sociale, e che è assurdo considerarle
come qualcosa
di
assoluto; dopo aver aggiunto che il campo di applicazione delle
macchine e della grande industria va sempre più estendendosi, Engels
passa dalle considerazioni generali sull'autorità al problema dello
Stato.
"
...Se gli autonomisti - egli scrive - si limitassero a dire che
l'organizzazione sociale dell'avvenire restringerà l'autorità ai
soli limiti nei quali le condizioni della produzione la rendono
inevitabile, si potrebbe intendersi; invece, essi sono ciechi per
tutti i fatti che rendono necessaria la cosa, e si avventano contro
la parola.
"Perchè
gli anti-autoritari non si limitano a gridare contro l'autorità
politica, lo Stato? Tutti i socialisti sono d'accordo in ciò, che lo
Stato politico e con lui l'autorità politica scompariranno in
conseguenza della prossima rivoluzione sociale, e cioè che le
funzioni pubbliche perderanno il loro carattere politico, e si
cangieranno in semplici funzioni amministrative veglianti ai veri
interessi sociali. Ma gli anti-autoritari domandano che lo Stato
politico autoritario sia abolito d'un tratto, prima ancora che si
abbiano distrutte le condizioni sociali, che l'hanno fatto nascere.
Eglino domandano che il primo atto della rivoluzione sociale sia
l'abolizione dell'autorità. Non hanno mai veduto una rivoluzione
questi signori? Una rivoluzione è certamente la cosa più
autoritaria che vi sia; è l'atto per il quale una parte della
popolazione impone la sua volontà all'altra parte col mezzo di
fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari, se ce ne sono; e il
partito vittorioso, se non vuol avere combattuto invano, deve
continuare questo dominio col terrore che le sue armi ispirano ai
reazionari. La Comune di Parigi sarebbe durata un sol giorno, se non
si fosse servita di questa autorità di popolo armato, in faccia ai
borghesi? Non si può al contrario rimproverarle di non essersene
servita abbastanza largamente?
"Dunque,
delle due cose l'una: o gli anti-autoritari non sanno ciò che si
dicono, e in questo caso non seminano che la confusione; o essi lo
sanno, e in questo caso tradiscono il movimento del proletariato.
Nell'un caso e nell'altro essi servono la reazione" [33] (p.
39).
In
questo passo si fa accenno a questioni che devono essere esaminate in
connessione con il problema dei rapporti fra la politica e l'economia
nel periodo dell'estinzione dello Stato. (Il capitolo seguente è
dedicato a questo tema.) Tali sono i problemi relativi alla
trasformazione delle funzioni pubbliche da funzioni politiche in
semplici funzioni amministrative; tale è il problema dello "Stato
politico". Quest'ultima espressione, particolarmente
suscettibile di far sorgere malintesi, mostra il processo
dell'estinzione dello Stato: lo Stato che si estingue, a un certo
punto dalla sua estinzione, può essere chiamato uno Stato non
politico.
La
cosa più notevole in questo passo di Engels è ancora una volta il
modo con cui egli imposta la questione contro gli anarchici. I
socialdemocratici, che pretendono di essere allievi di Engels, hanno
polemizzato milioni di volte con gli anarchici dopo il 1873, ma non
hanno discusso come i marxisti possono e debbono fare. L'idea che si
fanno gli anarchici dell'abolizione dello Stato è confusa e non
rivoluzionaria: ecco come Engels impostò la questione. E' proprio la
rivoluzione, nel suo sorgere e nel suo sviluppo, nei suoi compiti
specifici rispetto alla violenza, all'autorità, al potere, allo
Stato, che gli anarchici si rifiutano di vedere.
Per
i socialdemocratici contemporanei la critica dell'anarchismo si
riduce abitualmente a questa pura banalità piccolo-borghese: "Noi
ammettiamo lo Stato, gli anarchici no!". Naturalmente una tale
banalità non può non suscitare l'avversione degli operai con un
minimo di raziocinio e rivoluzionari. Ben altro è ciò che dice
Engels: egli sottolinea che tutti i socialisti riconoscono che la
scomparsa dello Stato è una conseguenza della rivoluzione
socialista. In seguito egli pone in modo concreto la questione della
rivoluzione, la questione appunto che i socialdemocratici, per il
loro opportunismo, generalmente eludono, abbandonando agli anarchici
il monopolio della pseudo "elaborazione" di questo
problema. E ponendo tale questione, Engels prende il toro per le
corna: la Comune non avrebbe dovuto forse servirsi maggiormente del
potere rivoluzionario dello Stato, vale a dire del proletariato
armato, organizzato come classe dominante?
La
socialdemocrazia ufficiale e dominante ha eluso di solito il problema
dei compiti concreti del proletariato nella rivoluzione, o con un
semplice sarcasmo da filisteo, o, nel migliore dei casi, con questa
battuta sofistica ed evasiva: "Si vedrà poi!". Gli
anarchici erano in diritto di rimproverare, a una tale
socialdemocrazia, di venir meno al suo dovere di educare in uno
spirito rivoluzionario gli operai. Engels mette a profitto
l'esperienza dell'ultima rivoluzione proletaria appunto per studiare
nel modo più concreto quello che il proletariato deve fare per ciò
che riguarda sia le banche che lo Stato, e come deve farlo.
3.
Una lettera a Bebel
Una
delle considerazioni più notevoli, se non la più notevole, che
troviamo negli scritti di Marx e di Engels sullo Stato, è nel
seguente passo di una lettera di Engels a Bebel del 18-28 marzo 1875.
Notiamo tra parentesi che questa lettera è stata pubblicata per la
prima volta, per quanto mi è noto, nel secondo volume delle memorie
di Bebel (Ricordi della mia vita), apparse nel 1911, cioè trentasei
anni dopo che era stata scritta e inviata.
Engels
aveva scritto a Bebel criticando il progetto del programma di Gotha,
che anche Marx aveva criticato nella sua nota lettera a W. Bracke.
Parlando in particolare del problema dello Stato, Engels scrive :
"
...Lo Stato popolare libero si è trasformato in Stato libero.
Secondo il senso grammaticale di queste parole, uno Stato libero è
quello che è libero verso i suoi cittadini, cioè è uno Stato con
un governo dispotico. Sarebbe ora di farla finita con tutte queste
chiacchiere sullo Stato, specialmente dopo la Comune che non era più
uno Stato nel senso proprio della parola. Gli anarchici ci hanno
abbastanza rinfacciato lo "Stato popolare", benchè già il
libro di Marx contro Proudhon e in seguito il Manifesto del Partito
comunista dicano esplicitamente che con l'instaurazione del regime
sociale socialista lo Stato si dissolve da sé [sich auflöst] e
scompare. Non essendo lo Stato altro che un'istituzione temporanea di
cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per tener
soggiogati con la forza i propri nemici, parlare di uno "Stato
popolare libero" è pura assurdità: finchè il proletariato ha
ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell'interesse della
libertà, ma nell'interesse dell'assoggettamento dei suoi avversari,
e quando diventa possibile parlare di libertà allora lo Stato come
tale cessa di esistere. Noi proporremo quindi di mettere ovunque
invece della parola Stato la parola Gemeinwesen, una vecchia
eccellente parola tedesca, che corrisponde alla parola francese
Commune" [34] (p. 322 dell'originale tedesco).
Bisogna
ricordare che questa lettera si riferisce al programma del partito,
criticato in una lettera di Marx scritta solo poche settimane dopo
questa (la lettera di Marx è del 5 maggio 1875), e che Engels viveva
allora con Marx a Londra. E' dunque certo che Engels, dicendo nella
sua ultima frase "noi", propone, a nome suo e di Marx, al
capo del partito operaio tedesco di sopprimere nel programma la
parola "Stato" e di sostituirla con la parola "Comune".
Come
griderebbero all' "anarchia" i capi del moderno "marxismo"
adattato alle comodità degli opportunisti, se si proponesse loro un
simile emendamento del programma!
Gridino
pure! La borghesia li loderà.
Noi,
da parte nostra, continueremo la nostra opera. Nel rivedere il
programma del nostro partito dovremmo assolutamente tener conto del
consiglio di Engels e di Marx, per accostarci alla verità, per
ristabilire il marxismo, purificandolo da tutte le deformazioni, per
meglio dirigere la classe operaia nella lotta per la sua liberazione.
E' certo che la raccomandazione di Engels e di Marx non troverà
oppositori tra i bolscevichi. Non ci sarà, crediamo, che una
difficoltà: la scelta del termine. In tedesco vi sono due parole che
significano "Comune"; Engels scelse quella che indica non
una singola comune, ma un insieme, un sistema di comuni. In russo non
esiste una parola simile e bisognerà forse ricorrere alla parola
francese "Commune", quantunque presenti anch'essa certi
inconvenienti.
"La
Comune non era più uno Stato nel senso proprio della parola":
ecco l'affermazione di Engels, fondamentale dal punto di vista
teorico. Dopo l'esposizione che precede, questa affermazione è
perfettamente comprensibile. La Comune cessava di essere uno Stato
nella misura in cui essa non doveva più opprimere la maggioranza
della popolazione, ma una minoranza (gli sfruttatori); essa aveva
spezzato la macchina dello Stato borghese; invece di una forza
particolare di oppressione, era la popolazione stessa che entrava in
campo. Tutto ciò non corrisponde più allo Stato nel senso proprio
della parola. Se la Comune si fosse consolidata, le tracce dello
Stato si sarebbero "estinte" da sé: la Comune non avrebbe
avuto bisogno di "abolire" le sue istituzioni: queste
avrebbero cessato di funzionare a mano a mano che non avrebbero più
avuto nulla da fare.
"Gli
anarchici ci rinfacciano lo "Stato popolare"." Così
dicendo Engels allude soprattutto a Bakunin e ai suoi attacchi contro
i socialdemocratici tedeschi. Engels riconosce che questi attacchi
sono in qualche modo giusti in quanto lo "Stato popolare" è
un nonsenso e una deviazione dal socialismo, come lo è lo "Stato
popolare libero". Engels si sforza di correggere la lotta dei
socialdemocratici tedeschi contro gli anarchici, di farne una lotta
giusta nei principi, di sbarazzarla dai pregiudizi opportunisti sullo
"Stato". Ahimè! La lettera di Engels è rimasta per ben
trentasei anni in un cassetto. Vedremo più avanti che, anche dopo la
pubblicazione di questa lettera, Kautsky si ostina a ripetere in
sostanza i medesimi errori contro i quali Engels aveva messo in
guardia.
Bebel
rispose a Engels il 21 settembre 1875, con una lettera nella quale
dichiarava tra l'altro di essere "completamente d'accordo"
con il giudizio da lui esposto sul progetto del programma e di aver
rimproverato a Liebknecht di essere stato troppo accomodante (p. 304
dell'ed. tedesca delle memorie di Bebel, vol. II). Ma se prendiamo
l'opuscolo di Bebel intitolato I nostri scopi vi troveremo delle
considerazioni sullo Stato completamente sbagliate:
"Lo
Stato fondato sulla dominazione di una classe deve essere trasformato
in uno Stato popolare" (Unsere Ziele, ed. tedesca, 1886, p. 14).
E
questo è pubblicato nella nona (nona!) edizione dell'opuscolo di
Bebel! Non c'è da meravigliarsi che la socialdemocrazia tedesca si
sia imbevuta di concezioni opportunistiche sullo Stato così
ostinatamente ripetute, tanto più quando i commenti rivoluzionari di
Engels giacevano in un cassetto e le circostanze della vita facevano
"disimparare" per lungo tempo la rivoluzione.
4.
Critica del progetto del programma di Erfurt
Non
si può, in un'analisi della dottrina marxista sullo Stato,
trascurare la critica del progetto del programma di Erfurt inviata da
Engels a Kautsky il 29 giugno 1891 [35], e pubblicata solo dieci anni
dopo nella Neue Zeit, perchè essa è soprattutto dedicata alla
critica delle concezioni opportuniste della socialdemocrazia sui
problemi dell'organizzazione dello Stato.
Rileviamo
di sfuggita che Engels dà anche, sulle questioni economiche, una
indicazione estremamente preziosa, che mostra con quale attenzione e
quale profondità di pensiero egli seguisse le trasformazioni del
capitalismo moderno, e come sapesse quindi, in una certa misura,
presentire i problemi della nostra epoca imperialista. Ecco questa
indicazione: a proposito della parola Planlosigkeit (assenza di
piano) adoperata nel progetto di programma per caratterizzare il
capitalismo, Engels scrive:
"...Se
poi dalle società per azioni passiamo ai trust, che dominano e
monopolizzano intere branche dell'industria, non soltanto non esiste
più produzione privata, ma non possiamo parlare più neppure di
assenza di un piano" [36] (Neue Zeit, A. XX, vol. I, 1901-1902,
p. 8).
Nella
valutazione teorica del capitalismo moderno, cioè dell'imperialismo,
è colto qui l'essenziale, vale a dire che il capitalismo si
trasforma in capitalismo monopolistico. E da sottolineare capitalismo
perchè uno degli errori più diffusi è l'affermazione riformista
borghese, secondo la quale il capitalismo monopolistico o
monopolistico di Stato non è già più capitalismo e può essere
chiamato "socialismo di Stato", ecc. Naturalmente i trust
non hanno mai dato, non danno sinora e non possono dare la
regolamentazione di tutta l'economia secondo un piano. Ma per quanto
essi stabiliscano un piano, per quanto i magnati del capitale
calcolino in anticipo il volume della produzione su scala nazionale e
persino internazionale, per quanto essi regolino questa produzione in
base a un piano, rimaniamo tuttavia in regime capitalistico, benchè
in una sua nuova fase, ma, indubbiamente, in regime capitalistico. La
"vicinanza" di tale capitalismo al socialismo deve essere
per i veri rappresentanti del proletariato un argomento in favore
della vicinanza, della facilità, della possibilità, dell'urgenza
della rivoluzione socialista, e non già un argomento per mostrarsi
tolleranti verso la negazione di questa rivoluzione e verso
l'abbellimento del capitalismo, nella qual cosa sono impegnati tutti
i riformisti.
Ma
ritorniamo al problema dello Stato. Engels ci dà qui indicazioni
particolarmente preziose su tre punti: primo, sul problema della
repubblica; secondo, sul legame esistente tra la questione nazionale
e l'organizzazione dello Stato; terzo, sull'amministrazione autonoma
locale.
Engels
fa della questione della repubblica il punto cruciale della sua
critica nel programma di Erfurt. Se ricordiamo quale importanza il
programma di Erfurt aveva assunto per tutta la socialdemocrazia
internazionale, come era servito di modello a tutta la Seconda
Internazionale, si potrà dire, senza timore di esagerare, che Engels
critica qui l'opportunismo di tutta la Seconda Internazionale.
"Le
rivendicazioni politiche del progetto - egli scrive - hanno un grosso
difetto. In esse manca proprio ciò che invece doveva essere detto"
[37] (il corsivo è di Engels).
E
più avanti dimostra che la Costituzione tedesca è, in sostanza, una
copia ricalcata della Costituzione ultrareazionaria del 1850; che il
Reichstag non è altro, come diceva Wilhelm Liebknecht, che "la
foglia di fico dell'assolutismo", e che voler realizzare - sulla
base di una Costituzione che consacra l' esistenza di piccoli Stati
tedeschi e della confederazione di questi piccoli Stati - la
"trasformazione dei mezzi di lavoro in proprietà comune" è
"manifestamente privo di senso".
"E'
pericoloso toccare questo tasto", - aggiunge Engels, il quale sa
benissimo che non si può, in Germania, enunciare legalmente in un
programma la rivendicazione della repubblica. Tuttavia Engels non si
adatta puramente e semplicemente a questa considerazione evidente di
cui "tutti" si accontentano. Egli continua: "Ma
l'argomento, in un modo o nell'altro, va affrontato. Quanto sia
necessario lo sta dimostrando proprio ora l'opportunismo che è
penetrato [einreissende] in una grande parte della stampa
socialdemocratica. Per timore di una ripresa delle leggi
antisocialiste, a causa del ricordo di tutte le varie dichiarazioni
prematuramente espresse quando quelle leggi erano in vigore,
all'improvviso l'attuale situazione legale in Germania dovrebbe
essere sufficiente al partito per attuare per via pacifica tutte le
sue rivendicazioni..." [38]
I
socialdemocratici tedeschi hanno agito per paura di un rinnovo delle
leggi eccezionali: - è questo il fatto essenziale che Engels pone in
primo piano e definisce, senza mezzi termini, opportunismo,
dichiarando che, appunto perchè in Germania non v'è repubblica e
non v'è libertà, sognare una via "pacifica" è cosa
insensata. Engels è abbastanza prudente per non legarsi le mani.
Egli riconosce che nei paesi retti a repubblica o che godono di una
grandissima libertà "si può concepire" (soltanto
"concepire"!) un'evoluzione pacifica verso il socialismo,
ma in Germania, egli ripete,
"...in
Germania, dove il governo è quasi onnipotente e il Reichstag e gli
altri organismi rappresentativi sono privi di reale potere, e per di
più proclamarlo senza necessità, significa togliere all'assolutismo
la foglia di fico e servirsene per coprire le proprie nudità...".
[39]
A
fare da copertura all'assolutismo furono infatti, nella loro grande
maggioranza, i capi ufficiali della socialdemocrazia tedesca, che
aveva messo "nel dimenticatoio" gli avvertimenti di Engels.
"...Una
simile politica, alla lunga, non può non indurre in errore il
partito. Si pongono in prima linea questioni politiche astratte,
generali, e si celano così le questioni concrete e più urgenti,
quelle questioni che al primo grande avvenimento, alla prima crisi
politica, si pongono da sé all'ordine del giorno. Che altro può
derivarne, se non il fatto che al momento decisivo il partito si
trovi improvvisamente perplesso, che sui punti decisivi regnino la
confusione e la discordia perchè questi punti non sono mai stati
discussi?...
"Questo
dimenticare i grandi principi fondamentali di fronte agli interessi
passeggeri del momento, questo lottare e tendere al successo
momentaneo senza preoccuparsi delle conseguenze che ne scaturiranno,
questo sacrificare il futuro del movimento per il presente del
movimento, può essere considerato onorevole, ma è e rimane
opportunismo, e l'opportunismo "onorevole" è forse il
peggiore di tutti...
"Se
vi è qualcosa di certo, è proprio il fatto che il nostro partito e
la classe operaia possono giungere al potere soltanto sotto la forma
della repubblica democratica. Anzi, questa è la forma specifica per
la dittatura del proletariato, come già ha dimostrato la Grande
Rivoluzione francese..." [40]
Engels
ripete qui, mettendola particolarmente in rilievo, l'idea
fondamentale che attraversa, come un filo ininterrotto, tutte le
opere di Marx: la repubblica democratica è la via più breve che
conduce alla dittatura del proletariato. Questa repubblica, infatti,
benchè non sopprima affatto il dominio del capitale, e quindi
l'oppressione delle masse e la lotta di classe, porta inevitabilmente
questa lotta a un'estensione, a uno sviluppo, a uno slancio e ad
un'ampiezza tale che, una volta apparsa la possibilità di soddisfare
gli interessi essenziali delle masse oppresse, questa possibilità si
realizza necessariamente e unicamente con la dittatura del
proletariato, con la direzione di queste masse da parte del
proletariato. Per tutta la Seconda Internazionale anche queste sono
state "parole dimenticate" del marxismo, e questa
dimenticanza si è manifestata con particolare evidenza nella storia
del partito menscevico durante i primi sei mesi della rivoluzione
russa del 1917.
Sul
problema della repubblica federativa in relazione con la composizione
nazionale della popolazione, Engels scriveva:
"Che
cosa dovrebbe subentrare al loro posto?" (al posto della
costituzione monarchica reazionaria dell'attuale Germania e della sua
non meno reazionaria suddivisione in piccoli Stati, che perpetua le
caratteristiche specifiche del "prussianesimo" anziché
dissolverle in una Germania come un tutto unico). "A mio
giudizio, il proletariato può utilizzare soltanto la forma della
repubblica una e indivisibile. La repubblica federale ancora oggi,
nel complesso, è una necessità, data la gigantesca estensione
territoriale degli Stati Uniti, sebbene nella loro parte orientale
costituisca già un impedimento. Sarebbe un progresso in Inghilterra,
dove sulle due isole vivono quattro nazioni, e dove nonostante un
Parlamento unico sussistono già oggi, uno accanto all'altro, tre
tipi di sistemi legislativi. Già da tempo essa è divenuta un
ostacolo nella piccola Svizzera, sopportabile soltanto perché la
Svizzera si accontenta di essere un membro puramente passivo del
sistema degli Stati europei. Per la Germania una imitazione del
federalismo svizzero sarebbe un enorme passo indietro. Due punti
dividono lo Stato federale dallo Stato unitario, cioè il fatto che
ogni singolo Stato federato, ogni Cantone, ha la propria legislazione
civile e penale e la propria organizzazione giudiziaria, e il fatto
che accanto al Parlamento del popolo (Volkshaus) esiste un Parlamento
degli Stati (Staatenhaus), nel quale ogni Cantone, grande o piccolo,
vota come tale."
In
Germania lo Stato federale rappresenta una forma di transizione verso
uno Stato completamente unitario; non si deve far retrocedere la
"rivoluzione dall'alto", compiuta nel 1866 e nel 1870, ma
si deve completarla con un "movimento dal basso" [41].
Ben
lontano dal disinteressarsi delle forme dello Stato, Engels si sforza
al contrario di analizzare con la massima attenzione proprio le forme
transitorie, per determinare in ogni caso specifico, in base alle
particolarità storiche concrete, quale passaggio, da che cosa e
verso che cosa, rappresenti la forma transitoria esaminata
Come
Marx, Engels difende, dal punto di vista del proletariato e della
rivoluzione proletaria, il centralismo democratico, la repubblica una
e indivisibile. Egli considera la repubblica federale o come
un'eccezione alla regola e un ostacolo allo sviluppo, o come una
transizione tra la monarchia e la repubblica centralizzata, come un
"passo avanti", in certe condizioni particolari. E fra
queste condizioni particolari, mette in evidenza la questione
nazionale.
Sia
in Engels che in Marx, benché essi abbiano criticato implacabilmente
il carattere reazionario degli staterelli in quanto tali e
l'utilizzazione, in casi concreti, della questione nazionale per
mascherare questo carattere reazionario, non si troverà, in nessuno
dei loro scritti, neppur l'ombra della tendenza ad eludere la
questione nazionale, tendenza di cui parlano spesso i marxisti
olandesi e polacchi, pur partendo dalla lotta del tutto legittima
contro il nazionalismo angustamente piccolo-borghese dei "loro"
piccoli Stati.
Persino
in Inghilterra, dove le condizioni geografiche, la comunanza della
lingua e una storia multisecolare sembrerebbero "aver messo
fine" alla questione nazionale per singole piccole suddivisioni
del paese, - persino qui Engels tiene conto del fatto evidente che la
questione nazionale non è ancora superata e riconosce perciò che la
repubblica federale costituirebbe un "passo in avanti". Ma
non vi è qui neppur l'ombra della rinuncia a criticare i difetti
della repubblica federale e a condurre la propaganda e la lotta più
decisa in favore della repubblica unitaria, democratica,
centralizzata.
Ma
Engels non concepisce affatto il centralismo democratico nel senso
burocratico dato a questa nozione dagli ideologi borghesi e
piccolo-borghesi, compresi, fra questi ultimi, gli anarchici. Per
Engels il centralismo non esclude affatto una larga autonomia
amministrativa locale, la quale, mantenendo le "comuni" e
le regioni volontariamente l'unità dello Stato, sopprime recisamente
ogni burocrazia e ogni "comando" dall'alto.
"...Dunque
repubblica unitaria, - scrive Engels sviluppando le concezioni
programmatiche del marxismo a proposito dello Stato. - Ma non nel
senso di quella francese odierna, che non è altro se non l'impero
senza imperatore, fondato nel 1798. Dal 1792 al 1798 ogni
dipartimento francese, ogni comune (Gemeinde) godettero di una
amministrazione completamente autonoma, secondo il modello americano,
e anche noi dobbiamo averla.
L'
America e la prima repubblica francese mostrarono a noi tutti in che
modo si debba istituire l'amministrazione autonoma e come si possa
fare a meno della burocrazia, e ancor oggi ce lo dimostrano
l'Australia, il Canadà e le altre colonie inglesi. Tale
amministrazione autonoma provinciale e comunale è assai più libera
che, ad esempio, il federalismo svizzero, dove il Cantone è bensì
assai indipendente rispetto alla Confederazione, ma lo è anche
rispetto al distretto e al comune. I governi cantonali nominano
governatori distrettuali e prefetti, mentre di tutto questo non si ha
traccia nei paesi di lingua inglese, e anche noi in futuro vorremmo
garbatamente fare a meno di essi come dei presidenti distrettuali e
dei consiglieri di prefettura prussiana."
Engels
propone quindi di formulare nel modo seguente l'articolo del
programma relativo all'autonomia amministrativa: "Amministrazione
completamente autonoma nella provincia," (governatorato o
regione) "nei distretti e nei comuni, da parte di impiegati
eletti con suffragio universale. Abolizione di ogni autorità locale
e provinciale nominata dallo Stato". [42]
Nella
Pravda (n. 68, 28 maggio 1917), proibita dal governo di Kerenski e
dagli altri ministri "socialisti", ho già avuto occasione
di mostrare che, su questo punto, - il quale evidentemente è
tutt'altro che il solo, - i nostri rappresentanti pseudosocialisti di
una pseudodemocrazia pseudorivoluzionaria si allontanano in modo
clamoroso dai princípi democratici. Si comprende come questa gente,
legata dalla sua "coalizione" con la borghesia
imperialista, sia rimasta sorda a queste considerazioni.
E'
molto importante rilevare che Engels, prove alla mano, smentisce con
il più preciso degli esempi il pregiudizio straordinariamente
diffuso - specie nella democrazia piccolo-borghese, - secondo il
quale una repubblica federale significhi necessariamente maggiore
libertà di quanto non si abbia in una repubblica centralizzata. E'
falso. I fatti citati da Engels relativi alla repubblica francese
centralizzata del 1792-l798 e alla repubblica federale svizzera
confutano questa affermazione. In realtà la repubblica
centralizzata, effettivamente democratica, diede maggiore libertà
che non la repubblica federale. In altri termini: la maggiore libertà
locale, regionale, ecc., che la storia abbia conosciuta è stata data
dalla repubblica centralizzata e non dalla repubblica federale.
La
nostra propaganda e la nostra agitazione di partito hanno dedicato e
dedicano tuttora una insufficiente attenzione a questo fatto, come,
in generale, a tutto il problema della repubblica federale e
centralizzata e della autonomia amministrativa locale.
5.
La prefazione del 1891 alla "Guerra civile" di Marx
Nella
sua prefazione alla terza edizione della Guerra civile in Francia -
prefazione in data del 18 marzo 1891, pubblicata per la prima volta
nella rivista Neue Zeit -, accanto ad alcune interessanti riflessioni
incidentali sui problemi connessi all'atteggiamento nei confronti
dello Stato, Engels dà un riassunto meravigliosamente incisivo degli
insegnamenti della Comune. Questo riassunto, - arricchito di tutta
l'esperienza del periodo di vent'anni che separa il suo autore dalla
Comune, e in particolar modo rivolto contro la "fede
superstiziosa nello Stato" tanto diffusa in Germania, - può a
buon diritto essere considerato come l'ultima parola del marxismo
sulla questione in esame.
In
Francia, dopo ogni rivoluzione, - osserva Engels, - gli operai erano
armati; "per i borghesi che si trovavano ancora al governo dello
Stato il disarmo degli operai era quindi il primo comandamento. Ecco
quindi sorgere dopo ogni rivoluzione vinta dagli operai una nuova
lotta, la quale finisce con la disfatta degli operai". [43]
Questo
bilancio dell'esperienza delle rivoluzioni borghesi è tanto succinto
quanto eloquente. Il fondo del problema - come, fra l'altro, nella
questione dello Stato (la classe oppressa dispone di armi?) - è
individuato in modo ammirevole. Ed è proprio questo fondo che tanto
i professori influenzati dall'ideologia borghese quanto i democratici
della piccola borghesia eludono cosí spesso. Nella rivoluzione russa
del 1917 fu al "menscevico" Tsereteli, "marxista anche
lui", che toccò l'onore (l'onore d'un Cavaignac) di svelare
inavvertitamente questo segreto delle rivoluzioni borghesi. Nel suo
"storico" discorso dell'11 giugno, Tsereteli ebbe
l'imprudenza di annunziare che la borghesia era decisa a disarmare
gli operai di Pietrogrado, decisione ch'egli naturalmente presentò
anche come propria e, in generale, come una necessità "di
Stato"!
Lo
storico discorso di Tsereteli, pronunciato l'11 giugno, sarà
certamente per tutti gli storici della rivoluzione del 1917 una delle
migliori illustrazioni del passaggio del blocco dei
socialisti-rivoluzionari e dei menscevichi, con a capo il signor
Tsereteli, dalla parte della borghesia, contro il proletariato
rivoluzionario.
Un'altra
riflessione incidentale di Engels, anch'essa legata al problema dello
Stato, riguarda la religione. E' noto che la socialdemocrazia
tedesca, a mano a mano che si incancreniva e diventava sempre più
opportunista, scivolava con sempre maggiore frequenza verso una
interpretazione erronea e filistea della celebre formula: "La
religione è un affare privato". Questa formula infatti era
interpretata come se, anche per il partito del proletariato
rivoluzionario, la questione della religione fosse un affare
privato!! Contro questo completo tradimento del programma
rivoluzionario del proletariato si levò Engels, che, non potendo
ancora, nel 1891, osservare nel suo partito se non dei debolissimi
germi di opportunismo, si esprimeva quindi con grande prudenza:
"Come
nella Comune vi erano quasi solo operai o rappresentanti riconosciuti
degli operai, così anche le sue deliberazioni avevano una decisa
impronta proletaria. O decretavano riforme che la borghesia
repubblicana aveva trascurato soltanto per viltà, ma che
rappresentavano una base necessaria per la libertà d'azione della
classe operaia, come l'attuazione del principio che di fronte allo
Stato la religione non è che un semplice affare privato; oppure
emettevano deliberazioni nell'interesse diretto della classe operaia,
che talvolta incidevano anche profondamente sull'antico ordinamento
sociale..." [44].
E'
con intenzione che Engels ha sottolineato le parole "di fronte
allo Stato"; in tal modo egli attaccava in pieno l'opportunismo
tedesco che dichiarava la religione un affare privato di fronte al
partito e abbassava così il partito del proletariato rivoluzionario
al livello del più volgare piccolo-borghese "libero pensatore",
che è disposto ad ammettere che si possa rimanere fuori della
religione, ma rinnega il compito del partito di lottare contro la
religione, quest'oppio che inebetisce il popolo.
Il
futuro storico della socialdemocrazia tedesca, ricercando le prime
fonti della sua vergognosa bancarotta nel 1914, troverà numerosi
documenti interessanti su questa questione, a cominciare dalle
dichiarazioni evasive fatte nei suoi articoli dal capo ideologico del
partito, Kautsky, dichiarazioni che spalancavano le porte
all'opportunismo, per finire con l'atteggiamento del partito verso il
Los-von-Kirche-Bewegung (movimento per la separazione dalla Chiesa)
nel 1913.
Ma
vediamo come, vent' anni dopo la Comune, Engels riassumeva gli
insegnamenti ch'essa - aveva dato al proletariato in lotta.
Ecco
gli insegnamenti che Engels poneva in primo piano:
"...Proprio
l'opprimente potere del precedente governo centralizzato, il potere
dell' esercito della polizia politica, della burocrazia, che
Napoleone aveva creato nel 1798 e che da allora in poi ogni nuovo
governo aveva accettato come uno strumento ben accetto e aveva
sfruttato contro i suoi avversari, proprio quel potere doveva cadere
dappertutto, come già era caduto a Parigi.
"La
Comune dovette riconoscere sin dal principio che la classe operaia,
una volta giunta al potere, non può continuare ad amministrare con
la vecchia macchina statale; che la classe operaia, per non perdere
di nuovo il potere appena conquistato, da una parte deve eliminare
tutto il vecchio macchinario repressivo già sfruttato contro di
essa, e dall'altra deve assicurarsi contro i propri deputati e
impiegati, dichiarandoli revocabili senza alcuna eccezione e in ogni
momento...". [45]
Engels
sottolinea ancora una volta che non solo in una monarchia, ma anche
nella repubblica democratica, lo Stato rimane lo Stato; conserva cioè
la sua caratteristica fondamentale: trasformare i funzionari, da
"servitori della società" e suoi organi, in padroni della
società.
"...Contro
questa trasformazione, inevitabile finora in tutti gli Stati, dello
Stato e degli organi dello Stato da servitori della società in
padroni della società, la Comune applicò due mezzi infallibili. In
primo luogo, assegnò elettivamente tutti gli impieghi
amministrativi, giudiziari, educativi, per suffragio generale degli
interessati e con diritto costante di revoca da parte di questi. In
secondo luogo, per tutti i servizi, alti e bassi, pagò solo lo
stipendio che ricevevano gli altri lavoratori. Il più alto assegno
che essa pagava era di 6.000 franchi [*]. In questo modo era posto un
freno sicuro alla caccia agli impieghi e al carrierismo, anche senza
i mandati imperativi per i delegati ai Corpi rappresentativi, che
furono aggiunti per soprappiù..." [46]
Engels
affronta qui l'interessante limite, passato il quale la democrazia
conseguente da un lato si trasforma in socialismo, e dall'altro
richiede il socialismo. Infatti, per sopprimere lo Stato è
necessario trasformare le funzioni del servizio statale in operazioni
di controllo e di registrazione, talmente semplici da essere alla
portata dell'immensa maggioranza della popolazione e, in seguito, di
tutta la popolazione. Ma per sopprimere completamente il carrierismo,
bisogna che un impiego statale "onorifico", anche se non
retribuito, non possa servire di passerella per raggiungere impieghi
molto lucrativi nelle banche e nelle società anonime, come
sistematicamente avviene in tutti i paesi capitalistici, anche i più
liberi.
Engels
non cade però nell'errore che commettono, ad esempio, certi marxisti
a proposito del diritto delle nazioni all'autodecisione: in regime
capitalistico, essi dicono, questo diritto è irrealizzabile, e in
regime socialista diventa superfluo. Questo ragionamento, che
vorrebbe essere spiritoso, ma è soltanto sbagliato, potrebbe essere
applicato a qualsiasi istituzione democratica, compreso il modesto
stipendio assegnato ai funzionari, poichè un sistema democratico
rigorosamente conseguente non è possibile in regime capitalistico, e
in regime socialista ogni democrazia finirà per estinguersi.
E'
un sofisma del genere della vecchia barzelletta: in quel momento
l'uomo che perde ad uno ad uno i suoi capelli può essere considerato
calvo?.
Sviluppare
la democrazia fino in fondo, ricercare le forme di questo sviluppo,
metterle alla prova della pratica, ecc.: tutto ciò costituisce uno
dei problemi fondamentali della lotta per la rivoluzione sociale.
Preso a sé, nessun sistema democratico, qualunque esso sia, darà il
socialismo; ma nella vita il sistema democratico non sarà mai "preso
a sé", sarà "preso nell'insieme" ed eserciterà la
sua influenza anche sull'economia di cui stimolerà la
trasformazione, mentre esso stesso subirà l'influenza dello sviluppo
economico, ecc. E' questa la dialettica della storia viva.
Engels
continua:
"...Questa
distruzione violenta [Sprengung] del potere dello Stato esistente e
la sostituzione ad esso di un nuovo potere veramente democratico, è
descritta esaurientemente nel terzo capitolo della Guerra civile. Era
però necessario ritornar qui brevemente sopra alcuni tratti di essa,
perchè proprio in Germania la fede superstiziosa nello Stato si è
trasportata dalla filosofia nella coscienza generale della borghesia
e perfino di molti operai. Secondo la concezione filosofica, lo Stato
è "la realizzazione dell'Idea" ovvero il regno di Dio in
terra tradotto in linguaggio filosofico, il campo nel quale la verità
e la giustizia eterne si realizzano o si devono realizzare. Di qui
una superstiziosa venerazione dello Stato e di tutto ciò che ha
relazione con lo Stato, che subentra tanto più facilmente in quanto
si è assuefatti fin da bambini a immaginare che gli affari comuni a
tutta la società non possono venir curati altrimenti che come sono
stati curati fino a quel momento cioè per mezzo dello Stato e dei
suoi ben pagati funzionari. E si crede è liberati dalla fede nella
monarchia ereditata e si giura nella repubblica democratica. Però lo
Stato non è in realtà che una macchina per l'oppressione di una
classe da parte di un' altra, nella repubblica democratica non meno
che nella monarchia; e nel migliore dei casi è un male che viene
lasciato in eredità al proletariato riuscito vittorioso nella lotta
per il dominio di classe i cui lati peggiori il proletariato non
potrà fare a meno di amputare subito, nella misura del possibile
come fece la Comune, finchè una generazione, cresciuta in condizioni
sociali nuove, libere, non sia in grado di scrollarsi dalle spalle
tutto il ciarpame statale". [47]
Engels
metteva in guardia i tedeschi perchè non dimenticassero,
nell'eventualità della sostituzione della monarchia con la
repubblica, i princípi del socialismo sul problema dello Stato in
generale. Questi suoi avvertimenti appaiono oggi come una lezione
impartita direttamente ai signori Tsereteli e Cernov, che hanno
manifestato, nella loro pratica di "coalizione", la loro
fede superstiziosa nello Stato e la loro superstiziosa venerazione
verso di esso!
Ancora
due osservazioni: 1) Quando Engels dice che nella repubblica
democratica "non meno" che nella monarchia, lo Stato rimane
"una macchina per l'oppressione di una classe da parte di
un'altra", ciò non significa affatto che la forma d'oppressione
sia indifferente per il proletariato, come "insegnano"
certi anarchici. Una forma più larga, più libera, più aperta, di
lotta di classe e di oppressione di classe facilita immensamente al
proletariato la sua lotta per la soppressione delle classi in
generale. 2) Perchè soltanto una nuova generazione sarà in grado di
scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame statale? Questo problema è
connesso a quello del superamento della democrazia, del quale
parleremo ora.
6.
Engels sul superamento della democrazia
Engels
ha avuto modo di pronunciarsi su questo punto trattando della
inesattezza scientifica della denominazione "socialdemocratico".
Nella
prefazione alla raccolta dei suoi articoli degli anni 1870 su diversi
temi, dedicati in prevalenza ad argomenti "internazionali"
(Internatiolanes aus dem Volkstaat [48]), - prefazione in data 3
gennaio 1894, cioè scritta un anno e mezzo prima della sua morte, -
Engels scrive che in tutti i suoi articoli egli ha impiegato la
parola "comunista" e non "socialdemocratico",
perchè a quell'epoca si chiamavano socialdemocratici i proudhoniani
in Francia e i lassalliani in Germania.
"...Per
Marx come per me, continua Engels, - era dunque assolutamente
impossibile adoperare un'espressione così elastica per definire la
nostra posizione. Oggi la cosa è diversa, e questa parola"
("socialdemocratico") "può forse andare [mag
passieren] per quanto rimanga imprecisa [unpassend, impropria] per un
partito il cui programma economico non è semplicemente socialista in
generale, ma veramente comunista; per un partito il cui scopo
politico finale è la soppressione di ogni Stato e, quindi, di ogni
democrazia. Del resto, i veri (il corsivo è di Engels) partiti
politici non hanno mai una denominazione che loro convenga
perfettamente; il partito si sviluppa, la denominazione rimane."
Il
dialettico Engels nel declino dei suoi giorni rimane fedele alla
dialettica. Marx ed io, egli dice, avevamo per il partito un nome
eccellente, scientificamente esatto, ma allora non c'era un vero
partito, cioè un partito proletario di massa. Ora (fine del secolo
decimonono) esiste un vero partito, ma la sua denominazione è
scientificamente inesatta. Non importa, essa "può andare"
purchè il partito si sviluppi, purchè l'inesattezza scientifica del
suo nome non gli sfugga e non gli impedisca di svilupparsi in una
giusta direzione!
Qualche
burlone potrebbe forse venirci a consolare, noi bolscevichi, alla
maniera di Engels: noi abbiamo un vero partito; esso si sviluppa nel
migliore dei modi: dunque il nome assurdo e barbaro di "bolscevico",
che non esprime assolutamente nulla se non il fatto puramente
accidentale che al congresso di Bruxelles-Londra del 1903 avemmo la
maggioranza, può anch'esso "andare"... Forse, ora che le
persecuzioni del nostro partito da parte dei repubblicani e della
democrazia piccolo-borghese "rivoluzionaria" nel
luglio-agosto 1917, hanno reso così popolare, così onorevole il
titolo di bolscevico e hanno inoltre confermato l'immenso progresso
storico del nostro partito nel corso del suo sviluppo reale, io
stesso esiterei forse a proporre, come in aprile, di cambiare il nome
del nostro partito. Proporrei forse ai compagni un "compromesso":
chiamarci Partito comunista, conservando, fra parentesi, la parola
"bolscevico"...
Ma
la questione del nome del partito è infinitamente meno importante di
quella dell'atteggiamento del proletariato rivoluzionario verso lo
Stato.
Discutendo
sullo Stato si cade abitualmente nell'errore contro il quale Engels
mette qui in guardia e che noi abbiamo già prima segnalato di
sfuggita: si dimentica cioè che la soppressione dello Stato è anche
la soppressione della democrazia, e che l'estinzione dello Stato è
l'estinzione della democrazia.
A
prima vista questa affermazione pare del tutto strana e
incomprensibile: alcuni potrebbero forse persino temere che noi
auspichiamo l'avvento di un ordinamento sociale in cui non verrebbe
osservato il principio della sottomissione della minoranza alla
maggioranza; perché in definitiva che cos'è la democrazia se non il
riconoscimento di questo principio?
No!
La democrazia non si identifica con la sottomissione della minoranza
alla maggioranza. La democrazia è uno Stato che riconosce la
sottomissione della minoranza alla maggioranza, cioè
l'organizzazione della violenza sistematicamente esercitata da una
classe contro un'altra, da una parte della popolazione contro
l'altra.
Noi
ci assegniamo come scopo finale la soppressione dello Stato, cioè di
ogni violenza organizzata e sistematica, di ogni violenza esercitata
contro gli uomini in generale. Noi non auspichiamo l'avvento di un
ordinamento sociale in cui non venga osservato il principio della
sottomissione della minoranza alla maggioranza. Ma, aspirando al
socialismo, noi abbiamo la convinzione che esso si trasformerà in
comunismo, e che scomparirà quindi ogni necessità di ricorrere in
generale alla violenza contro gli uomini, alla sottomissione di un
uomo a un altro, di una parte della popolazione a un'altra, perchè
gli uomini si abitueranno a osservare le condizioni elementari della
convivenza sociale, senza violenza e senza sottomissione.
Per
mettere in risalto questo elemento di consuetudine, Engels parla
della nuova generazione, "cresciuta in condizioni sociali nuove,
libere" e che sarà "in grado di scrollarsi dalle spalle
tutto il ciarpame statale", ogni forma di Stato, compresa la
repubblica democratica.
Per
chiarire questo punto dobbiamo analizzare le basi economiche
dell'estinzione dello Stato.
V.
Le basi economiche dell'estinzione dello Stato
Lo
studio più approfondito di questo problema lo troviamo in Marx,
nella sua Critica del programma di Gotha (lettera a Bracke del 5
maggio 1875, pubblicata soltanto nel 1891 nella Neue Zeit, IX, l, e
di cui apparve una edizione separata in russo). La parte polemica di
questa importante opera, che contiene la critica del lassallismo, ha
lasciato per così dire nell'ombra la parte positiva, cioè l'analisi
della connessione tra lo sviluppo del comunismo e l'estinzione dello
Stato.
l.
L'impostazione della questione in Marx
Se
si sottopongono a un superficiale confronto la lettera di Marx a
Bracke del 5 maggio 1875 e la lettera del 28 marzo 1875 di Engels a
Bebel, esaminata più sopra, può sembrare che Marx sia molto più
"statalista" di Engels e che la differenza fra le
concezioni dei due scrittori sullo Stato sia molto notevole.
Engels
invita Bebel a smetterla con le chiacchiere sullo Stato, a bandire
completamente dal programma la parola "Stato" e a
sostituirla con la parola "Comune"; Engels dichiara persino
che la Comune non era più uno Stato nel senso proprio della parola.
Marx invece parla del "futuro Stato della società comunista",
cioè sembra ammettere la necessità dello Stato anche in regime
comunista.
Ma
una tale interpretazione sarebbe profondamente errata. Un più
attento esame mostra che le idee di Marx e di Engels sullo Stato e
sull'estinzione dello Stato coincidono perfettamente e che
l'espressione di Marx citata si riferisce appunto all'organizzazione
statale in via di estinzione.
Non
è possibile evidentemente determinare il momento in cui avverrà
questa futura "estinzione", soprattutto perchè essa sarà
inevitabilmente un processo di lunga durata. L'apparente differenza
tra Marx ed Engels si spiega con la differenza degli argomenti
trattati e degli scopi da essi perseguiti. Engels si propone di
dimostrare a Bebel, in modo clamoroso, incisivo, a grandi linee,
tutta l'assurdità dei pregiudizi correnti (condivisi in gran parte
da Lassalle) sullo Stato. Marx sfiora soltanto questo problema; un
altro argomento l'interessa: lo sviluppo della società comunista.
Tutta
la teoria di Marx è l'applicazione al capitalismo contemporaneo
della teoria dell'evoluzione, nella sua forma più conseguente e
completa, meditata e ricca di contenuto. Si comprende quindi che Marx
abbia visto il problema dell'applicazione di questa teoria
all'imminente fallimento del capitalismo e al futuro sviluppo del
futuro comunismo.
Su
quali dati ci si può dunque basare nel porre la questione del futuro
sviluppo del futuro comunismo?
Sul
fatto che il comunismo è generato dal capitalismo, si sviluppa
storicamente dal capitalismo, è il risultato dell'azione di una
forza sociale prodotta dal capitalismo. In Marx non vi è traccia del
tentativo di inventare delle utopie, di fare vane congetture su quel
che non si può sapere. Marx pone la questione del comunismo come un
naturalista porrebbe, per esempio, la questione dell'evoluzione di
una nuova specie biologica, una volta conosciuta la sua origine e la
linea precisa della sua evoluzione.
Marx
respinge innanzitutto la confusione in cui cade il programma di Gotha
nella questione dei rapporti tra lo Stato e la società.
"...La
"società odierna" - egli scrive, - è la società
capitalistica, che esiste in tutti i paesi civili, più o meno libera
di aggiunte medioevali, più o meno modificata dallo speciale
svolgimento storico di ogni paese, più o meno evoluta. Lo "Stato
odierno", invece, muta con il confine di ogni paese. Nel Reich
tedesco-prussiano esso è diverso che in Svizzera; in Inghilterra è
diverso che negli Stati Uniti. Lo "Stato odierno " è
dunque una finzione. "
Tuttavia
i diversi Stati dei diversi paesi civili, malgrado le loro variopinte
differenze di forma, hanno tutti in comune il fatto che stanno sul
terreno della moderna società borghese, che è soltanto più o meno
evoluta dal punto di vista capitalistico. Essi hanno perciò in
comune anche alcuni caratteri essenziali. In questo senso si può
parlare di uno "Stato odierno", in contrapposto al futuro,
in cui la presente radice dello Stato, la società borghese, sarà
perita.
"Si
domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società
comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi
ancora. che siano analoghe alle odierne funzioni statali? A questa
questione si può rispondere solo scientificamente, e componendo
migliaia di volte la parola popolo con la parola Stato non ci si
avvicina alla soluzione del problema neppure di una spanna..."
[49]
Avendo
così ridicolizzato tutte le chiacchiere sullo "Stato popolare",
Marx mostra come si deve impostare la questione, e avverte che non le
si può dare in qualche modo una risposta scientifica se non
basandosi su dati scientifici solidamente stabiliti.
Il
primo punto, stabilito con la massima precisione da tutta la teoria
dell'evoluzione e, in generale, da tutta la scienza - punto che gli
utopisti dimenticavano e che dimenticano gli opportunisti odierni, i
quali temono la rivoluzione sociale - è il seguente: è storicamente
certo che fra il capitalismo e il comunismo dovrà necessariamente
esserci uno stadio particolare o una tappa particolare di
transizione.
2.
La transizione dal capitalismo al comunismo
"...Tra
la società capitalistica e la società comunista, - prosegue Marx, -
vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una
nell'altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di
transizione, il cui Stato non può essere altro che la dittatura
rivoluzionaria del proletariato..." [50]
Questa
conclusione si basa, in Marx, sull'analisi della funzione che il
proletariato ha nella società capitalistica odierna, sui dati dello
sviluppo di questa società e sulla inconciliabilità degli opposti
interessi del proletariato e della borghesia.
Prima
la questione veniva posta in tal modo: per ottenere la sua
emancipazione il proletariato deve rovesciare la borghesia,
conquistare il potere politico, stabilire la sua dittatura
rivoluzionaria.
Ora
la questione si pone in modo un po' diverso: il passaggio dalla
società capitalistica, che si sviluppa in direzione del comunismo,
alla società comunista è impossibile senza un "periodo
politico di transizione", e lo Stato di questo periodo non può
esser altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato.
Ma
qual è l'atteggiamento di questa dittatura verso la democrazia?
Abbiamo
visto che il Manifesto del Partito comunista pone semplicemente uno
accanto all'altro i due concetti: "trasformazione del
proletariato in classe dominante" e "conquista della
democrazia". Tutto ciò che precede permette di determinare nel
modo più preciso le modificazioni che subirà la democrazia nella
transizione dal capitalismo al comunismo.
La
società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di sviluppo
più favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia
più o meno completa. Ma questa democrazia è sempre limitata nel
ristretto quadro dello sfruttamento capitalistico, e rimane sempre,
in fondo, una democrazia per la minoranza, per le sole classi
possidenti, per i soli ricchi. La libertà, nella società
capitalistica, rimane sempre più o meno quella che fu nelle
repubbliche dell'antica Grecia: la libertà per i proprietari di
schiavi. Gli odierni schiavi salariati. in conseguenza dello
sfruttamento capitalistico, sono talmente soffocati dal bisogno e
dalla miseria, che "hanno altro pel capo che la democrazia",
"che la politica", sicchè, nel corso ordinario e pacifico
degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova tagliata
fuori dalla vita politica e sociale.
L'esattezza
di questa affermazione è confermata. forse con la maggiore evidenza,
dall'esempio della Germania, perchè è proprio in questo paese che
la legalità costituzionale si mantenne, per quasi mezzo secolo
(1871-1914), con una costanza e una durata sorprendenti. e durante
questo periodo la socialdemocrazia seppe, molto più che negli altri
paesi, "usufruire della legalità" e organizzare in un
partito politico una parte di operai molto più grande che in
qualsiasi altro paese del mondo.
Quale
è dunque questa parte - la più elevata fra quelle che si osservano
nella società capitalistica - degli schiavi salariati politicamente
coscienti e attivi? Un milione di membri del partito
socialdemocratico su 15 milioni di operai salariati! Tre milioni di
operai organizzati nei sindacati su 15 milioni di operai!
Democrazia
per un'infima minoranza, democrazia per i ricchi: questo è il
sistema democratico della società capitalistica. Se osserviamo più
da vicino il meccanismo della democrazia capitalistica, si vedranno
sempre dovunque - sia nei "piccoli" (i pretesi piccoli)
particolari della legislazione elettorale (durata della residenza,
esclusione delle donne, ecc.), sia nel funzionamento delle
istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli di fatto al diritto
di riunione (gli edifici pubblici non sono per i "poveri"!),
sia nell' organizzazione puramente capitalistica della stampa
quotidiana, ecc. - si vedranno restrizioni su restrizioni al sistema
democratico. Queste restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci
per i poveri sembrano piccoli soprattutto a coloro che non hanno mai
conosciuto il bisogno e non hanno mai avvicinato le classi oppresse
né la vita delle masse che le costituiscono (e sono i nove decimi,
se non i novantanove centesimi dei pubblicisti e degli uomini
politici borghesi), ma, sommate, queste restrizioni escludono i
poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva alla democrazia.
Marx
afferrò perfettamente questa caratteristica essenziale della
democrazia capitalistica, quando, nella sua analisi dell'esperienza
della Comune, disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta
ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante
li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento!
Ma
l'evoluzione da questa democrazia capitalistica - inevitabilmente
ristretta, che respinge in modo dissimulato i poveri, e quindi
profondamente ipocrita e bugiarda - "a una democrazia sempre più
perfetta", non avviene così semplicemente, direttamente e senza
scosse come immaginano i professori liberali e gli opportunisti
piccolo-borghesi. No. Lo sviluppo progressivo, cioè l'evoluzione
verso il comunismo, avviene passando per la dittatura del
proletariato e non può avvenire altrimenti, poichè non v'è
nessun'altra classe e nessun altro mezzo che possa spezzare la
resistenza dei capitalisti sfruttatori.
Ora,
la dittatura del proletariato, vale a dire l'organizzazione
dell'avanguardia degli oppressi in classe dominante per reprimere gli
oppressori, non può limitarsi a un puro e semplice allargamento
della democrazia. Insieme a un grandissimo allargamento della
democrazia, divenuta per la prima volta una democrazia per i poveri,
per il popolo, e non una democrazia per i ricchi, la dittatura del
proletariato apporta una serie di restrizioni alla libertà degli
oppressori, degli sfruttatori, dei capitalisti. Costoro noi li
dobbiamo reprimere, per liberare l'umanità dalla schiavitù
salariata; si deve spezzare con la forza la loro resistenza; ed è
chiaro che dove c'è repressione, dove c'è violenza, non c'è
libertà, non c'è democrazia.
Engels
lo ha espresso in modo mirabile nella sua lettera a Bebel scrivendo,
come il lettore ricorda, che "finchè il proletariato ha ancora
bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell'interesse della libertà,
ma nell'interesse dell'assoggettamento dei suoi avversari, e quando
diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale
cessa di esistere".
Democrazia
per l'immensa maggioranza del popolo e repressione con la forza, vale
a dire esclusione dalla democrazia, per gli sfruttatori, gli
oppressori del popolo: tale è la trasformazione che subisce la
democrazia nella transizione dal capitalismo al comunismo.
Soltanto
nella società comunista, quando la resistenza dei capitalisti è
definitivamente spezzata, quando i capitalisti sono scomparsi e non
esistono più classi (non v'è cioè più distinzione fra i membri
della società secondo i loro rapporti coi mezzi sociali di
produzione), soltanto allora "lo Stato cessa di esistere e
diventa possibile parlare di libertà". Soltanto allora diventa
possibile e si attua una democrazia realmente completa, realmente
senza alcuna eccezione. Soltanto allora la democrazia comincia a
estinguersi, per la semplice ragione che, liberati dalla schiavitù
capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità,
ignominie dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abituano a
poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza
sociale, da tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti
i comandamenti, a osservarle senza violenza, senza costrizione, senza
sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si
chiama Stato.
L'espressione:
"lo Stato si estingue" è molto felice in quanto esprime al
tempo stesso la gradualità del processo e la sua spontaneità.
Soltanto l'abitudine può produrre un tale effetto, e senza dubbio lo
produrrà, poichè noi osserviamo attorno a noi milioni di volte con
quale facilità gli uomini si abituano a osservare le regole per loro
indispensabili della convivenza sociale, quando non vi è
sfruttamento e quando nulla provoca l'indignazione, la protesta, la
rivolta e rende necessaria la repressione.
La
società capitalistica non ci offre dunque che una democrazia tronca,
miserabile, falsificata, una democrazia per i soli ricchi, per la
sola minoranza. La dittatura del proletariato, periodo di transizione
verso il comunismo, istituirà per la prima volta una democrazia per
il popolo, per la maggioranza, accanto alla repressione necessaria
della minoranza, degli sfruttatori. Solo il comunismo è in grado di
dare una democrazia realmente completa; e quanto più sarà completa,
tanto più rapidamente diventerà superflua e si estinguerà da sé.
In
altri termini: noi abbiamo, nel regime capitalistico, lo Stato nel
vero senso della parola, una macchina speciale per la repressione di
una classe da parte di un'altra e per di più della maggioranza da
parte della minoranza. Si comprende come per realizzare un simile
compito - la sistematica repressione della maggioranza degli
sfruttati da parte di una minoranza di sfruttatori - siano necessarie
una crudeltà e una ferocia di repressione estreme: fiumi di sangue
attraverso cui l'umanità prosegue il suo cammino, sotto il regime
della schiavitù, della servitù della gleba e del lavoro salariato.
In
seguito, nel periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, la
repressione è ancora necessaria, ma è già esercitata da una
maggioranza di sfruttati contro una minoranza di sfruttatori. Lo
speciale apparato, la macchina speciale di repressione, lo "Stato",
è ancora necessario, ma è già uno Stato transitorio, non più lo
Stato propriamente detto, perchè la repressione di una minoranza di
sfruttatori da parte della maggioranza degli schiavi salariati di
ieri è cosa relativamente così facile, semplice e naturale, che
costerà molto meno sangue di quello che è costata la repressione
delle rivolte di schiavi, di servi e di operai salariati, costerà
molto meno caro all'umanità. Ed essa è compatibile con una
democrazia che abbraccia una maggioranza della popolazione così
grande che comincia a scomparire il bisogno di una macchina speciale
di repressione. Gli sfruttatori non sono naturalmente in grado di
reprimere il popolo senza una macchina molto complicata destinata a
questo compito; il popolo, invece, può reprimere gli sfruttatori
anche con una "macchina" molto semplice, quasi senza
"macchina", senza apparato speciale, mediante la semplice
organizzazione delle masse in armi (come - diremo anticipando - i
Soviet dei deputati operai e soldati).
Infine,
solo il comunismo rende lo Stato completamente superfluo, perchè non
c'è da reprimere nessuno, "nessuno" nel senso di classe,
nel senso di lotta sistematica contro una parte determinata della
popolazione. Noi non siamo utopisti e non escludiamo affatto che
siano possibili e inevitabili eccessi individuali, come non
escludiamo la necessità di reprimere tali eccessi. Ma anzitutto, per
questo non c'è bisogno d'una macchina speciale, di uno speciale
apparato di repressione; lo stesso popolo armato si incaricherà di
questa faccenda con la stessa semplicità, con la stessa facilità
con cui una qualsiasi folla di persone civili, anche nella società
attuale, separa delle persone in rissa o non permette che venga usata
la violenza contro una donna. Sappiamo inoltre che la principale
causa sociale degli eccessi che costituiscono infrazioni alle regole
della convivenza sociale è lo sfruttamento delle masse, la loro
povertà, la loro miseria. Eliminata questa causa principale, gli
eccessi cominceranno infallibilmente a "estinguersi". Non
sappiamo con quale ritmo e quale gradualità, ma sappiamo che si
estingueranno. E con essi si estinguerà anche lo Stato.
Marx,
senza abbandonarsi all'utopia, definì più in particolare ciò che è
ora possibile definire di questo avvenire, e precisamente ciò che
distingue la fase (gradino, tappa) inferiore dalla fase superiore
della società comunista.
3.
La prima fase della società comunista
Nella
Critica del programma di Gotha Marx confuta minuziosamente l'idea di
Lassalle che l'operaio debba ricevere in regime socialista il reddito
"non ridotto" o il "reddito integrale del suo lavoro".
Marx dimostra che dal prodotto sociale complessivo di tutta la
società bisogna detrarre: un fondo di riserva, un fondo per
l'allargamento della produzione, un fondo destinato a reintegrare il
macchinario "consumato", ecc.; inoltre bisogna detrarre
dagli oggetti di consumo un fondo per le spese di amministrazione,
per le scuole, per gli ospedali, gli ospizi per i vecchi, ecc.
Invece
della formula nebulosa, oscura e generica di Lassalle ("all'operaio
il frutto integrale del suo lavoro"), Marx stabilisce
lucidamente come deve essere la gestione di una società socialista.
Egli affronta l'analisi concreta delle condizioni di vita di una
società in cui non esisterà il capitalismo, e aggiunge:
"Quella
con cui abbiamo da far qui" (analizzando il programma del
partito operaio) "è una società comunista. non come si è
sviluppata sulla sua propria base, ma, viceversa, come emerge dalla
società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto.
economico, morale, spirituale, le "macchie" della vecchia
società dal cui seno essa è uscita". [51]
E'
questa società comunista appena uscita dal seno del capitalismo, e
che porta ancora sotto ogni rapporto le impronte della vecchia
società, che Marx chiama "la prima fase" o fase inferiore
della società comunista.
I
mezzi di produzione non sono già più proprietà privata
individuale. Essi appartengono a tutta la società. Ogni membro della
società, eseguendo una certa parte del lavoro socialmente
necessario, riceve dalla società uno scontrino da cui risulta
ch'egli ha prestato tanto lavoro. Con questo scontrino egli ritira
dai magazzini pubblici di oggetti di consumo una corrispondente
quantità di prodotti. Detratta la quantità di lavoro versata ai
fondi sociali, ogni operaio riceve quindi dalla società tanto quanto
le ha dato.
Si
direbbe il regno dell'"uguaglianza".
Ma
quando, a proposito di quest'ordinamento sociale (abitualmente
chiamato socialismo, e che Marx chiama prima fase del comunismo),
Lassalle dice che c'è in esso "giusta ripartizione",
"uguale diritto di ciascuno all'uguale prodotto del lavoro",
egli si sbaglia e Marx spiega perchè.
Un
"uguale diritto", - dice Marx, - qui effettivamente
l'abbiamo, ma è ancora il "diritto borghese", che, come
ogni diritto, presuppone la disuguaglianza. Ogni diritto consiste
nell' applicazione di un'unica norma a persone diverse, a persone che
non sono, in realtà, né identiche, né uguali. L'"uguale
diritto" equivale quindi a una violazione dell'uguaglianza e
della giustizia. Infatti, per una parte uguale di lavoro sociale
fornito, ognuno riceve un'uguale parte della produzione sociale (con
le detrazioni indicate più sopra).
Gli
individui però non sono uguali: uno è più forte, l'altro è più
debole, uno è ammogliato, l'altro no, uno ha più figli, l'altro
meno, ecc.
"...Supposti
uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo
sociale, - conclude Marx, - l'uno riceve dunque più dell'altro,
l'uno è più ricco dell'altro e così via. Per evitare tutti questi
inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere
disuguale.." [52]
La
prima fase del comunismo non può dunque ancora realizzare la
giustizia e l'uguaglianza; rimarranno differenze di ricchezze e
differenze ingiuste; ma non sarà più possibile lo sfruttamento
dell'uomo da parte dell'uomo, poichè non sarà più possibile
impadronirsi, a titolo di proprietà privata, dei mezzi di
produzione, fabbriche, macchine, terreni, ecc. Demolendo la formula
confusa e piccolo-borghese di Lassalle sulla "uguaglianza"
e la "giustizia" in generale, Marx indica il corso dello
sviluppo della società comunista, costretta da principio a
distruggere solo l'"ingiustizia" costituita
dall'accaparramento dei mezzi di produzione da parte di singoli
individui, ma incapace di distruggere di punto in bianco l'altra
ingiustizia: la ripartizione dei beni di consumo "secondo il
lavoro" (e non secondo i bisogni).
Gli
economisti volgari, e fra essi i professori borghesi, compreso il
"nostro" Tugan, rimproverano continuamente ai socialisti di
dimenticare la disuguaglianza degli individui e di "sognare"
la soppressione di questa disuguaglianza. Questi rimproveri, come si
vede, dimostrano soltanto l'estrema ignoranza dei signori ideologi
borghesi.
Non
solo Marx tiene conto con molta precisione di questa inevitabile
disuguaglianza delle persone, ma non trascura nemmeno il fatto che,
da sola, la socializzazione dei mezzi ai produzione ("socialismo"
nel senso abituale della parola) non elimina gli inconvenienti della
distribuzione e la disuguaglianza del "diritto borghese"
che continua a dominare fino a quando i prodotti sono divisi "secondo
il lavoro".
"...Ma
questi inconvenienti - continua Marx - sono inevitabili nella prima
fase della società comunista, quale è uscita, dopo i lunghi
travagli del parto, dalla società capitalistica. Il diritto non può
essere mai più elevato della configurazione economica e dello
sviluppo culturale, da essa condizionato, della società..."
[53]
Così,
nella prima fase della società comunista (comunemente chiamata
socialismo), il "diritto borghese" non è completamente
abolito, ma solo in parte, soltanto nella misura in cui la
rivoluzione economica è compiuta, cioè unicamente per quanto
riguarda i mezzi di produzione. Il "diritto borghese"
riconosce la proprietà privata su questi ultimi a individui singoli.
Il socialismo ne fa una proprietà comune. In questa misura - e
soltanto in questa misura - il "diritto borghese" è
abolito.
Ma
esso sussiste nell'altra sua parte, sussiste quale regolatore
(fattore determinante) della distribuzione dei prodotti e del lavoro
fra i membri della società. "Chi non lavora non mangia":
questo principio socialista è già realizzato; "a uguale
quantità di lavoro, uguale quantità di prodotti": quest'altro
principio socialista è anche esso già realizzato. Tuttavia ciò non
è ancora il comunismo, non abolisce ancora il "diritto
borghese" che attribuisce a persone disuguali e per una quantità
di lavoro disuguale (di fatto disuguale) una quantità uguale di
prodotti.
E'
un "inconveniente", dice Marx, ma esso è inevitabile nella
prima fase del comunismo, in quanto non si può pensare, senza cadere
nell'utopia, che appena rovesciato il capitalismo gli uomini
imparino, dall'oggi al domani, a lavorare per la società senza
alcuna norma giuridica; d'altra parte, l'abolizione del capitalismo
non dà subito le premesse economiche per un tale cambiamento.
E
non vi sono altre norme, all'infuori di quelle del "diritto
borghese". Rimane perciò la necessità di uno Stato che,
mantenendo comune la proprietà dei mezzi di produzione, mantenga
l'uguaglianza del lavoro e l'uguaglianza della distribuzione dei
prodotti.
Lo
Stato si estingue nella misura in cui non ci sono più capitalisti,
non ci sono più e quindi non è più possibile reprimere alcuna
classe.
Ma
lo Stato non si è ancora estinto completamente, poichè rimane la
salvaguardia del "diritto borghese" che consacra la
disuguaglianza di fatto. Perchè lo Stato si estingua completamente
occorre il comunismo integrale.
4.
La fase superiore della società comunista
Marx
continua:
"...In
una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa
la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del
lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e fisico;
dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche
il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale
degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le
sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro
pienezza, solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può
essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere:
Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni!".
[54]
Ora
soltanto possiamo apprezzare tutta la giustezza delle osservazioni di
Engels, che colpisce implacabilmente con i suoi sarcasmi l'assurdo
accoppiamento delle parole "libertà" e "Stato".
Finchè esiste lo Stato non vi è libertà; quando si avrà la
libertà non vi sarà più Stato.
La
condizione economica della completa estinzione dello Stato è che il
comunismo giunga a un grado così elevato di sviluppo che ogni
contrasto di lavoro intellettuale e fisico scompaia, e che scompaia
quindi una delle principali fonti della disuguaglianza sociale
contemporanea, fonte che la sola socializzazione dei mezzi di
produzione, la sola espropriazione dei capitalisti non può inaridire
di colpo.
Questa
espropriazione renderà possibile uno sviluppo gigantesco delle forze
produttive. E vedendo come, già ora, il capitalismo intralci in modo
assurdo questo sviluppo, e quali progressi potrebbero essere
realizzati grazie alla tecnica moderna già acquisita, abbiamo il
diritto di affermare con assoluta certezza che l'espropriazione dei
capitalisti darà necessariamente un gigantesco impulso alle forze
produttive della società umana. Ma non sappiamo e non possiamo
sapere quale sarà la rapidità di questo sviluppo, quando esso
giungerà a una rottura con la divisione del lavoro, alla
soppressione del contrasto fra il lavoro intellettuale e fisico, alla
trasformazione del lavoro nel "primo bisogno della vita".
Abbiamo
perciò diritto di parlare unicamente dell'inevitabile estinzione
dello Stato, sottolineando la durata di questo processo, la sua
dipendenza dalla rapidità di sviluppo della fase più elevata del
comunismo, lasciando assolutamente in sospeso la questione del
momento in cui avverrà e delle forme concrete che questa estinzione
assumerà, poichè non abbiamo dati che ci permettano di risolvere
simili questioni.
Lo
Stato potrà estinguersi completamente quando la società avrà
realizzato il principio. "Ognuno secondo le sue capacità; a
ognuno secondo i suoi bisogni", cioè quando gli uomini si
saranno talmente abituati a osservare le regole fondamentali della
convivenza sociale e il lavoro sarà diventato talmente produttivo
ch'essi lavoreranno volontariamente secondo le loro capacità.
"L'angusto orizzonte giuridico borghese", che costringe a
calcolare con la durezza di uno Shylock: - non avrò per caso
lavorato mezz'ora più di un altro, non avrò guadagnato un salario
inferiore a un altro? -, questo ristretto orizzonte sarà allora
sorpassato. La distribuzione dei prodotti non renderà più
necessario che la società razioni i prodotti a ciascuno: ciascuno
sarà libero di attingere "secondo i suoi bisogni".
Dal
punto di vista borghese è facile dichiarare che un tale regime
sociale è "pura utopia" e coprire di sarcasmi i socialisti
che promettono a ogni cittadino di ricevere dalla società, senza
alcun controllo del suo lavoro, tutti i tartufi, tutte le automobili,
tutti i pianoforti che desidera. Ancor oggi la maggior parte degli
"scienziati" borghesi se la cavano con sarcasmi del genere
rivelando in tal modo sia la loro ignoranza che la loro interessata
difesa del capitalismo.
Ignoranza,
perchè non a un solo socialista è mai venuto in mente di
"promettere" l'avvento della fase superiore del comunismo;
in quanto alla previsione dei grandi socialisti sul suo avvento, essa
presuppone una produttività del lavoro diversa da quella attuale e
non l'attuale borghese, capace, come i seminaristi di Pomialovski
[55], di sperperare "a destra e a sinistra" le ricchezze
pubbliche e di pretendere l'impossibile.
Fino
all'avvento della fase "più elevata" del comunismo, i
socialisti reclamano dalla società e dallo Stato che sia esercitato
il più rigoroso controllo della misura del lavoro, e della misura
del consumo; ma questo controllo deve cominciare con l'espropriazione
dei capitalisti, con il controllo degli operai sui capitalisti, e
deve essere esercitato non dallo Stato dei funzionari, ma dallo Stato
degli operai armati.
La
difesa interessata del capitalismo da parte degli ideologi borghesi
(e dei loro reggicoda del tipo di Tsereteli, Cernov e consorti)
consiste precisamente nell'eludere con discussioni e frasi su un
lontano avvenire, la questione urgente e di scottante attualità
della politica d'oggi: l'espropriazione dei capitalisti, la
trasformazione di tutti i cittadini in lavoratori e impiegati di un
unico e grande "cartello", vale a dire lo Stato intero, e
la completa subordinazione di tutto il lavoro di tutto questo
cartello a uno Stato veramente democratico, allo Stato dei Soviet dei
deputati operai e soldati.
In
fondo quando un dotto professore, e dopo di lui il filisteo, e dopo
di lui i signori Tsereteli e i signori Cernov parlano delle utopie
insensate, delle promesse demagogiche dei bolscevichi, della
impossibilità di "introdurre" il socialismo essi alludono
appunto a questo stadio o a questa fase superiore del comunismo, che
non solo nessuno ha mai promesso, ma non ha neppure mai pensato di
"introdurre", per la sola ragione che è impossibile
"introdurla".
Ci
troviamo qui di fronte al problema della distinzione scientifica tra
socialismo e comunismo, problema toccato da Engels nel brano
precedentemente citato sulla denominazione non esatta di
"socialdemocratico". Dal punto di vista politico, la
differenza fra la prima fase o fase inferiore e la fase superiore del
comunismo probabilmente diventerà col tempo molto notevole, ma oggi,
in regime capitalistico, sarebbe ridicolo farne caso, e forse solo
certi anarchici potrebbero metterla in primo piano (se ci sono ancora
fra gli anarchici uomini a cui la metamorfosi "plekhanoviana"
dei Kropotkin, dei Grave, dei Cornelissen e di altre "stelle"
dell'anarchismo in socialsciovinisti o anarchici delle trincee - per
usare l'espressione di Gay, uno dei pochi anarchici che abbiano
conservato l'onore e la coscienza - non ha insegnato nulla). [56]
Ma
la differenza scientifica fra socialismo e comunismo è chiara. Marx
chiama "prima" fase o fase inferiore della società
comunista ciò che comunemente viene chiamato socialismo. La parola
"comunismo" può essere anche qui usata nella misura in cui
i mezzi di produzione divengono proprietà comune, purchè non si
dimentichi che non è un comunismo completo. Ciò che conferisce un
grande pregio all'esposizione di Marx è ch'egli applica
conseguentemente anche qui la dialettica materialistica, la teoria
dell'evoluzione, e considera il comunismo come un qualcosa che si
sviluppa dal capitalismo. Anziché attenersi a definizioni
"escogitate", scolastiche e artificiali, a sterili dispute
su parole (che cos'è il socialismo? che cos'è il comunismo?), Marx
analizza quelli che si potrebbero chiamare i gradi della maturità
economica del comunismo.
Nella
sua prima fase, nel suo primo grado, il comunismo non può essere,
dal punto di vista economico, completamente maturo, completamente
libero dalle tradizioni e dalle vestigia del capitalismo. Di qui il
fenomeno interessante qual è il mantenimento dell'"augusto
orizzonte giuridico borghese" nella prima fase del regime
comunista. Certo, il diritto borghese, per quel che concerne la
distribuzione dei beni di consumo, suppone pure necessariamente uno
Stato borghese, poichè il diritto è nulla senza un apparato capace
di costringere all'osservanza delle sue norme.
Ne
consegue che in regime comunista sussistono, per un certo tempo, non
solo il diritto borghese ma anche lo Stato borghese, senza borghesia!
Ciò
può sembrare un paradosso o un giuoco dialettico del pensiero e
questo rimprovero è stato spesso mosso al marxismo da gente che non
si è mai data la minima pena di studiarne la sostanza estremamente
profonda.
Ma
in realtà la vita ci mostra a ogni passo, nella natura e nella
società, che vestigia del passato sopravvivono nel presente. Marx
non introdusse arbitrariamente nel comunismo una particella del
diritto "borghese"; egli si rese conto soltanto di ciò
che, economicamente e politicamente, è inevitabile nella società
uscita dal seno del capitalismo.
La
democrazia ha una grandissima importanza nella lotta della classe
operaia contro i capitalisti per la sua emancipazione. Ma la
democrazia non è affatto un limite, un limite insuperabile; è
semplicemente una tappa sulla strada che va dal feudalesimo al
capitalismo e dal capitalismo al comunismo.
Democrazia
vuol dire uguaglianza. Si arriva a concepire quale grande importanza
hanno la lotta del proletariato per l'uguaglianza e la parola
d'ordine dell'uguaglianza se si comprende quest'ultima in modo
giusto, nel senso della soppressione delle classi. Ma democrazia
significa soltanto uguaglianza formale. E appena realizzata
l'uguaglianza di tutti i membri della società per ciò che concerne
il possesso dei mezzi di produzione, vale a dire l'uguaglianza del
lavoro, l'uguaglianza del salario, sorgerà inevitabilmente davanti
all'umanità la questione di compiere un successivo passo in avanti,
di passare dall'uguaglianza formale all'uguaglianza reale, cioè alla
realizzazione del principio: "Ognuno secondo le sue capacità; a
ognuno secondo i suoi bisogni". Noi non sappiamo né possiamo
sapere per quali tappe, attraverso quali provvedimenti pratici
l'umanità andrà verso questo fine supremo. Ma quel che importa è
vedere quanto sia falsa l'idea borghese corrente che il socialismo
sia qualche cosa di morto, di fisso, di dato una volta per sempre,
mentre in realtà soltanto col socialismo incomincerà, in tutti i
campi della vita sociale e privata, un rapido, vero, movimento
progressivo, effettivamente di massa, a cui parteciperà la
maggioranza della popolazione prima, e tutta la popolazione poi.
La
democrazia è una forma dello Stato, una delle sue varietà. Essa è
quindi. come ogni Stato, l'applicazione organizzata, sistematica,
della costrizione agli uomini. Questo, da un lato. Ma dall'altro
lato, la democrazia è il riconoscimento formale dell'uguaglianza fra
i cittadini, del diritto uguale per tutti di determinare la forma
dello Stato e di amministrarlo. Ne deriva che, a un certo grado del
suo sviluppo, la democrazia in primo luogo unisce contro il
capitalismo la classe rivoluzionaria, il proletariato, e gli dà la
possibilità di spezzare, di ridurre in frantumi, di far sparire
dalla faccia della terra la macchina dello Stato borghese, anche se
borghese repubblicano, l'esercito permanente, la polizia, la
burocrazia. e di sostituirli con una macchina più democratica, ma
che rimane tuttavia una macchina statale, costituita dalle masse
operaie armate, e poi da tutto il popolo che partecipa alla milizia.
Qui
la "quantità si trasforma in qualità"; arrivata a questo
grado, il sistema democratico esce dal quadro della società borghese
e comincia a svilupparsi verso il socialismo. Se tutti gli uomini
partecipano realmente alla gestione dello Stato, il capitalismo non
può più mantenersi. E lo sviluppo del capitalismo crea a sua volta
le premesse necessarie a che "tutti" effettivamente possano
partecipare alla gestione dello Stato. Queste premesse sono, tra
l'altro, l'istruzione generale, già realizzata in molti paesi
capitalistici più avanzati, poi l'"educazione e l'abitudine
alla disciplina" di milioni di operai per opera dell'enorme e
complesso apparato socializzato delle poste, delle ferrovie, delle
grandi officine, del grande commercio, delle banche, ecc.
Con
tali premesse economiche, è perfettamente possibile, dopo aver
rovesciato i capitalisti e i funzionari, sostituirli immediatamente
dall'oggi al domani, - per il controllo della produzione e della
distribuzione, per la registrazione del lavoro e dei prodotti, - con
gli operai armati, con tutto il popolo in armi. (Non bisogna
confondere la questione del controllo e della registrazione con
quella del personale tecnico scientificamente preparato, ingegneri,
agronomi, ecc.; questi signori lavorano oggi agli ordini dei
capitalisti, lavoreranno ancor meglio domani agli ordini degli operai
armati.)
Registrazione
e controllo: ecco l'essenziale, ciò che è necessario per
l'"avviamento" e il funzionamento regolare della società
comunista nella sua prima fase. Tutti i cittadini si trasformano qui
in impiegati salariati dello Stato, costituito dagli operai armati.
Tutti i cittadini diventano gli impiegati e gli operai d'un solo
"cartello" di tutto il popolo, dello Stato. Tutto sta
nell'ottenere che essi lavorino nella stessa misura, osservino la
stessa misura di lavoro e ricevano nella stessa misura. La
registrazione e il controllo in tutti questi campi sono stati
semplificati all'estremo dal capitalismo che li ha ridotti a
operazioni straordinariamente semplici di sorveglianza e di
conteggio, e al rilascio di ricevute, cose tutte accessibili a
chiunque sappia leggere e scrivere e fare le quattro operazioni. [*]
Quando
la maggioranza del popolo procederà ovunque essa stessa a questa
registrazione e a questo controllo dei capitalisti (trasformati
allora in impiegati) e dei signori intellettuali che avranno
conservato ancora delle abitudini capitaliste, questo controllo
diventerà veramente universale, generale, nazionale, e nessuno potrà
in alcun modo sottrarvisi, "non saprà dove cacciarsi" per
sfuggirvi.
L'intera
società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con
uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario.
Ma
questa disciplina "di fabbrica" che il proletariato, vinti
i capitalisti e rovesciati gli sfruttatori, estenderà a tutta la
società, non è affatto il nostro ideale né la nostra meta finale:
essa è soltanto la tappa necessaria per ripulire radicalmente la
società dalle brutture e dalle ignominie dello sfruttamento
capitalistico e assicurare l'ulteriore marcia in avanti.
Dal
momento in cui tutti i membri della società, o almeno l'immensa
maggioranza di essi, hanno appreso a gestire essi stessi lo Stato, si
sono messi essi stessi all'opera, hanno "organizzato" il
loro controllo sull'infima minoranza dei capitalisti, sui signori
desiderosi di conservare le loro abitudini capitaliste e sugli operai
profondamente corrotti del capitalismo, - da quel momento la
necessità di qualsiasi amministrazione comincia a scomparire. Quanto
più la democrazia è completa, tanto più vicino è il momento in
cui essa diventa superflua. Quanto più democratico è lo "Stato"
composto dagli operai armati, che "non è più uno Stato nel
senso proprio della parola", tanto più rapidamente incomincia
ad estinguersi ogni Stato.
Infatti
quando tutti avranno imparato ad amministrare ed amministreranno
realmente essi stessi la produzione sociale, quando tutti
procederanno essi stessi alla registrazione e al controllo dei
parassiti, dei figli di papà, dei furfanti e simili "guardiani
delle tradizioni del capitalismo", ogni tentativo di sfuggire a
questa registrazione e a questo controllo esercitato da tutto il
popolo diventerà una cosa talmente difficile, un'eccezione così
rara, provocherà verosimilmente un castigo così pronto e così
esemplare (poichè gli operai armati sono gente che hanno il senso
pratico della vita e non dei piccoli intellettuali sentimentali; non
permetteranno che si scherzi con loro), che la necessità di
osservare le regole semplici e fondamentali di ogni società umana
diventerà ben presto un costume.
Si
spalancheranno allora le porte che permetteranno di passare dalla
prima fase alla fase superiore della società comunista e, quindi,
alla completa estinzione dello Stato.
VI.
La degradazione del marxismo negli opportunisti
Il
problema dell'atteggiamento dello Stato nei confronti della
rivoluzione sociale e della rivoluzione sociale nei confronti dello
Stato, come del resto il problema della rivoluzione generale, ha
preoccupato assai poco i teorici e i pubblicisti più in vista della
Seconda Internazionale (1889-1914). Ma ciò che è più
caratteristico nel processo dello sviluppo graduale
dell'opportunismo, processo che è sboccato nel fallimento della
Seconda Internazionale nel 1914, è che, persino nei momenti in cui
il problema si imponeva con maggior acutezza, ci si sforzava di
evitarlo o di non vederlo.
Si
può dire in generale che la tendenza a eludere il problema
dell'atteggiamento della rivoluzione proletaria verso lo Stato,
tendenza vantaggiosa per l'opportunismo ch'essa alimentava, ha
portato al travisamento del marxismo e alla sua completa
degradazione.
Per
caratterizzare, sia pure brevemente, questo deplorevole processo,
consideriamo i teorici più in vista del marxismo: Plekhanov e
Kautsky.
1.
La polemica di Plekhanov con gli anarchici
Plekhanov
dedicò al problema dell'atteggiamento dell'anarchismo verso il
socialismo un opuscolo speciale: Anarchismo e socialismo [57], uscito
in tedesco nel 1894.
Plekhanov
si ingegnò a trattar questo tema eludendo completamente la questione
più attuale, più scottante e, politicamente, più essenziale nella
lotta contro l'anarchismo, e precisamente l'atteggiamento della
rivoluzione nei confronti dello Stato e la questione dello Stato in
generale! lI suo opuscolo comprende due parti: una
storico-letteraria, ricca di preziosi documenti sulla storia delle
idee di Stirner, di Proudhon, ecc.; l'altra filistea, con grossolane
considerazioni su temi come quello che un anarchico non si distingue
da un bandito.
Questa
combinazione di temi è molto spassosa e caratterizza perfettamente
tutta l'attività di Plekhanov alla vigilia della rivoluzione e nel
corso di tutto il periodo rivoluzionario in Russia: semi-dottrinario,
semi-filisteo, a rimorchio della borghesia in politica, tale si
mostrò Plekhanov nel periodo 1905- l 917.
Abbiamo
visto come, nelle loro polemiche con gli anarchici, Marx ed Engels
avessero chiarito con la massima cura i loro punti di vista
sull'atteggiamento della rivoluzione nei confronti dello Stato.
Pubblicando nel 1891 la Critica del programma di Gotha di Marx,
Engels scriveva: "Noi [cioè Engels e Marx] eravamo impegnati
allora, appena due anni dopo il Congresso dell'Aja della [Prima]
Internazionale, in una violentissima lotta contro Bakunin e i suoi
anarchici". [58]
Gli
anarchici tentarono appunto di presentare la Comune di Parigi come
una cosa per così dire "loro", che confermava la loro
dottrina, ma non capirono niente degli insegnamenti della Comune e
dell'analisi che Marx ne fece. Sulle questioni politiche concrete:
bisogna spezzare la vecchia macchina dello Stato? e con che cosa
sostituirla? l'anarchia non ha dato nulla che si avvicini, sia pur
approssimativamente, alla verità.
Ma
parlare di "anarchismo e socialismo" eludendo totalmente la
questione dello Stato, senza vedere tutto lo sviluppo del marxismo
prima e dopo la Comune, voleva dire cadere inevitabilmente
nell'opportunismo. Ciò che infatti occorre all'opportunismo è che
le due questioni che noi abbiamo qui indicate non siano affatto
poste. Ciò costituisce di per sé una vittoria dell'opportunismo.
2.
La polemica di Kautsky con gli opportunisti
La
letteratura russa possiede certamente assai più traduzioni di
Kautsky che non qualsiasi altra. Non è senza ragione che alcuni
socialdemocratici tedeschi dicono scherzando che Kautsky è molto più
letto in Russia che in Germania. (C'è in questa battuta, sia detto
tra parentesi, un fondamento storico molto più profondo di quanto
non sospettino quelli che l'hanno lanciata; cioè gli operai russi.
avendo presentato nel 1905 una richiesta straordinariamente elevata,
mai vista, delle migliori opere della migliore letteratura
socialdemocratica del mondo e avendo ricevuto traduzioni e edizioni
di queste opere in quantità non conosciuta negli altri paesi, hanno,
per così dire, trapiantato a un ritmo accelerato, nella giovane
terra del nostro movimento proletario, la notevole esperienza di un
paese vicino più avanzato.)
Oltre
che per la sua esposizione popolare del marxismo, Kautsky è
conosciuto da noi soprattutto per la sua polemica con gli
opportunisti, capeggiati da Bernstein. Ma c'è un fatto quasi
ignorato e che non si può passare sotto silenzio se si vuole
studiare come Kautsky abbia potuto perdere così vergognosamente la
testa e cadere, durante la grande crisi del 1914-1915, nella difesa
del social-sciovinismo. Questo fatto è che prima della sua campagna
contro i rappresentanti più in vista dell'opportunismo in Francia
(Millerand e Jaurès) e in Germania (Bernstein), Kautsky aveva
manifestato grandi esitazioni. La rivista marxista Zarià, che usciva
a Stoccarda nel 1901-l902 e difendeva le idee proletarie
rivoluzionarie, aveva dovuto polemizzare con Kautsky e qualificare
come risoluzione "di caucciù" la risoluzione mitigata,
evasiva, conciliante verso gli opportunisti, da lui proposta al
Congresso socialista internazionale di Parigi del 1900. Nella stampa
tedesca furono pubblicate lettere di Kautsky che rivelano esitazioni
non meno rilevanti prima della sua campagna contro Bernstein.
Una
importanza molto maggiore ha tuttavia il fatto che nella stessa
polemica di Kautsky con gli opportunisti, nel suo modo di porre e di
trattare la questione, noi costatiamo ora, studiando la storia del
suo recente tradimento verso il marxismo, una deviazione sistematica
verso l'opportunismo proprio sul problema dello Stato.
Prendiamo
la prima opera importante di Kautsky contro l'opportunismo, il suo
libro Bernstein e il programma socialdemocratico [59]. Qui egli
confuta minutamente Bernstein, ma ecco ciò che vi è di
caratteristico.
Nelle
sue Premesse del socialismo, che gli hanno fruttato una fama alla
maniera di Erostrato, Bernstein accusa il marxismo di "blanquismo"
(accusa in seguito mille volte ripetuta dagli opportunisti e dai
borghesi liberali in Russia contro i bolscevichi, rappresentanti del
marxismo rivoluzionario). Bernstein si sofferma qui specialmente
sulla Guerra civile in Francia di Marx e tenta molto infelicemente,
come abbiamo visto, di identificare il modo di vedere di Marx sugli
insegnamenti della Comune con quello di Proudhon. Ciò che attrae
soprattutto l'attenzione di Bernstein è la conclusione che Marx
sottolineò nella prefazione del 1872 al Manifesto del Partito
comunista, dove è detto: "La classe operaia non può
impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già
pronta e metterla in moto per i suoi propri fini".
Questa
espressione è talmente "piaciuta" a Bernstein ch'egli la
ripete non meno di tre volte nel suo libro, interpretandola nel
senso, più deformato, più opportunistico.
Come
abbiamo visto, Marx vuol dire che la classe operaia deve spezzare,
demolire, far saltare (Sprengung, esplosione. Il termine è di
Engels) tutta la macchina dello Stato. Ora, secondo Bernstein, Marx
avrebbe con ciò messo in guardia la classe operaia contro un ardore
troppo rivoluzionario nel momento della presa del potere.
Non
si può immaginare una falsificazione più grossolana e più
mostruosa del pensiero di Marx.
Come
ha proceduto dunque Kautsky nella sua minuziosissima confutazione del
bernsteinismo?
Egli
si è ben guardato dall'analizzare in tutta la sua profondità la
falsificazione del marxismo da parte degli opportunisti su questo
punto. Egli ha riprodotto il brano già citato nella prefazione di
Engels alla Guerra civile di Marx dicendo che, secondo Marx, la
classe operaia non può impadronirsi puramente e semplicemente della
macchina statale già pronta, ma che, in generale, essa può
impadronirsene, e nient'altro. Che Bernstein attribuisse a Marx
esattamente il contrario del suo vero pensiero e che, fin dal 1852,
Marx avesse assegnato alla rivoluzione proletaria il compito di
"spezzare" la macchina statale, di tutto ciò in Kautsky
non vi è nemmeno una parola.
Ne
risulta che ciò che distingue in modo radicale il marxismo
dall'opportunismo nella questione dei compiti della rivoluzione
proletaria è da Kautsky fatto sparire!
"Possiamo
in tutta tranquillità, - scrive Kautsky "contro"
Bernstein, - lasciare all'avvenire la cura di risolvere il problema
della dittatura del proletariato" (p. 172, ed. tedesca).
Questa
non è una polemica contro Bernstein, ma, in sostanza, una
concessione a Bernstein, una capitolazione di fronte
all'opportunismo, perchè gli opportunisti non domandano di meglio
che di "lasciare in tutta tranquillità all'avvenire" tutte
le questioni capitali relative ai compiti della rivoluzione
proletaria.
Per
quarant'anni, dal 1852 al 1891, Marx ed Engels insegnarono al
proletariato che esso deve spezzare la macchina dello Stato. E
Kautsky nel 1899, di fronte al completo tradimento del marxismo da
parte degli opportunisti su questo punto, sostituisce con un
giochetto il problema se si debba spezzare questa macchina, con il
problema delle forme concrete di questa demolizione e si trincera
dietro questa "incontestabile" (e sterile) verità
filistea: non possiamo conoscere in anticipo queste forme concrete!
Fra
Marx e Kautsky c'è un abisso nell'atteggiamento verso il compito del
partito del proletariato, che è di preparare la classe operaia alla
rivoluzione.
Prendiamo
l'opera successiva, più matura, di Kautsky, dedicata essa pure in
notevole misura alla confutazione degli errori dell'opportunismo. E'
l'opuscolo sulla Rivoluzione sociale [60]. Qui l'autore ha scelto
come tema specifico il problema della "rivoluzione proletaria"
e del "regime proletario". Egli enuncia molte idee
estremamente preziose ma tralascia proprio il problema dello Stato.
Nell'opuscolo si parla sempre della conquista del potere statale, e
basta; viene scelta cioè una formula che è una concessione agli
opportunisti, poiché essa ammette la conquista del potere senza la
distruzione della macchina dello Stato. Nel 1902 Kautsky risuscita
appunto ciò che Marx nel 1872 dichiarava "sorpassato" nel
programma del Manifesto del Partito comunista.
L'opuscolo
dedica un particolare paragrafo "alle forme e alle armi della
rivoluzione sociale". Vi si parla e dello sciopero politico di
massa, e della guerra civile, e di quegli "strumenti di dominio
di un grande Stato moderno quali sono la burocrazia e l'esercito";
ma degli insegnamenti che la Comune ha già fornito ai lavoratori non
una parola. Evidentemente Engels aveva ragione di mettere in guardia
soprattutto i socialisti tedeschi contro la "venerazione
superstiziosa" dello Stato.
Kautsky
presenta la cosa in questi termini: il proletariato vittorioso
"realizzerà il programma democratico", e ne espone i
paragrafi. Di ciò che l'anno 1871 ha fornito di nuovo circa la
sostituzione della democrazia proletaria alla democrazia borghese,
non un cenno! Kautsky se la cava con alcune banalità dall'apparenza
"seria", come questa:
"E'
ovvio che non arriveremo al potere nell'attuale regime. La
rivoluzione stessa presuppone una lotta prolungata, che vada in
profondità e avrà quindi il tempo di modificare la nostra attuale
struttura politica e sociale".
Certo,
ciò è "ovvio", come è sicuro che i cavalli mangiano
l'avena e che il Volga si getta nel Caspio. C'è solo da rimpiangere
il fatto che con una frase vuota e reboante sulla lotta "che va
in profondità" si eluda la questione capitale per il
proletariato rivoluzionario, quella di sapere in che cosa consista la
"profondità" della sua rivoluzione nei confronti dello
Stato, nei confronti della democrazia, a differenza delle precedenti
rivoluzioni non proletarie.
Eludendo
questa questione, Kautsky fa in realtà, su questo punto capitale,
una concessione all'opportunismo, al quale dichiara a parole una
guerra minacciosa sottolineando l'importanza dell'"idea di
rivoluzione" (ma che cosa può valere quest'"idea"
quando si ha paura di diffondere fra gli operai gli insegnamenti
concreti della rivoluzione?) o dicendo: "l'idealismo
rivoluzionario innanzi tutto", o dichiarando che gli operai
inglesi non sono oggi "gran che meglio dei piccoli borghesi".
"Nella
società socialista, - scrive Kautsky, - possono esistere l'una
accanto all'altra... le più svariate forme di imprese: burocratiche
[??], sindacali, cooperative, individuali..." "Ci sono, per
esempio, imprese che non possono fare a meno di un'organizzazione
burocratica [??], come le ferrovie. L'organizzazione democratica può
qui assumere la seguente forma: gli operai eleggono dei delegati che
formano una specie di parlamento, e questo parlamento stabilisce il
regime del lavoro e sorveglia la direzione dell'apparato burocratico.
Altre imprese possono essere affidate ai sindacati; altre infine
possono essere organizzate secondo i princípi della cooperazione"
(pp. 148 e 115 della traduzione russa, pubblicata a Ginevra nel
1903).
Questo
ragionamento è sbagliato, è un passo indietro rispetto ai
chiarimenti che Marx ed Engels davano negli anni '70 sulla base
dell'esperienza della comune.
Per
quanto riguarda la presunta necessità di una organizzazione
"burocratica", le ferrovie non si distinguono in nulla da
qualsiasi altra azienda della grande industria meccanizzata, da
qualsiasi officina, grande magazzino o grande azienda agricola
capitalista. In tutte queste aziende, la tecnica impone la più
rigorosa disciplina, la più grande puntualità nell'adempimento
della parte di lavoro assegnata a ciascuno, pena l'arresto di tutta
l'impresa o il deterioramento del meccanismo o delle merci. In tutte
queste aziende naturalmente gli operai "eleggeranno delegati che
formeranno una specie di parlamento".
Ma
il punto centrale è qui che questa "specie di parlamento"
non sarà un parlamento nel senso delle istituzioni parlamentari
borhesi. Il punto centrale è che questa "specie di parlamento"
non si accontenterà di "stabilire il regime del lavoro e di
sorvegliare la direzione dell'apparato burocratico" come
immagina Kautsky, il cui pensiero non esce dal quadro del
parlamentarismo borghese. Nella società socialista "una specie
di parlamento" di deputati operai, naturalmente "stabilirà
il regime del lavoro e sorveglierà il funzionamento"
dell'"apparato", ma quest'apparato non sarà "burocratico".
Gli operai, dopo aver conquistato il potere politico, spezzeranno il
vecchio apparato burocratico, lo demoliranno dalle fondamenta, non ne
lasceranno pietra su pietra e lo sostituiranno con un nuovo apparato,
che sarà composto dagli stessi operai e dagli stessi impiegati; e
contro il pericolo che anch'essi diventino dei burocrati, saranno
immediatamente prese le misure minuziosamente studiate da Marx e da
Engels: 1) non soltanto eleggibilità ma anche revocabilità ad ogni
istante; 2) stipendio non superiore al salario di un operaio; 3)
passaggio immediato a una situazione in cui tutti assumano le
funzioni di controllo e di sorveglianza, in cui tutti diventino
temporaneamente dei "burocrati", e quindi nessuno possa
diventare un "burocrate".
Kautsky
non ha affatto riflettuto sul senso delle parole di Marx: "La
Comune doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro,
esecutivo e legislativo allo stesso tempo".
Kautsky
non ha affatto capito la differenza fra il parlamentarismo borghese,
che unisce la democrazia (non per il popolo) alla burocrazia (contro
il popolo) e il sistema democratico proletario che prenderà
immediatamente le misure necessarie per tagliare alle radici il
burocratismo e sarà in grado di applicarle sino in fondo, sino alla
completa distruzione della burocrazia, sino all'instaurazione di una
completa democrazia per il popolo.
Kautsky
ha qui dato prova della solita "venerazione superstiziosa"
dello Stato, della solita "fede superstiziosa" nel
burocratismo.
Passiamo
all'ultima e migliore opera di Kautsky contro gli opportunisti, il
suo opuscolo La via del potere [61] (non tradotto, mi sembra, in
russo, perchè apparso nel 1909, quando da noi la reazione era al
culmine). Questo opuscolo segna un grande passo avanti in quanto non
tratta né del programma rivoluzionario in generale, come l'opera del
1899 contro Bernstein, né dei compiti della rivoluzione sociale
indipendentemente dall'epoca del suo avvento, come l'opuscolo La
rivoluzione sociale del 1902, ma delle condizioni concrete che ci
costringono a riconoscere che "l'èra delle rivoluzioni"
comincia.
L'autore
parla chiaramente dell'acuirsi degli antagonismi di classe in
generale, e dell'imperialismo che ha, sotto questo rapporto, una
funzione particolarmente importante. Dopo il "periodo
rivoluzionario del 1789-1871" per l'Europa occidentale, l'anno
1905 ha inaugurato un periodo analogo per l'Oriente. La guerra
mondiale si avvicina con una paurosa rapidità. "Il proletariato
non può più parlare di rivoluzione prematura", "Siamo
entrati nel periodo rivoluzionario", "L'èra rivoluzionaria
comincia".
Queste
dichiarazioni sono chiarissime. Quest'opuscolo di Kautsky può
servire come utile termine di confronto per vedere ciò che la
socialdemocrazia tedesca prometteva di essere prima della guerra
imperialistica e quanto in basso essa (e Kautsky con essa) sia caduta
allo scoppio della guerra. "La situazione attuale - scriverà
Kautsky nell'opuscolo citato - comporta il pericolo che ci si possa
facilmente prendere [noi, socialdemocratici tedeschi] per più
moderati di quel che in realtà siamo." E' risultato che il
partito socialdemocratico tedesco in realtà era incomparabilmente
più moderato e più opportunista di quanto non sembrasse!
Tanto
più caratteristico è il fatto che dopo aver proclamato in modo così
categorico che l'èra delle rivoluzioni incominciava, Kautsky, in un
opuscolo dedicato, secondo le sue stesse parole, proprio all'analisi
del problema della "rivoluzione politica", abbia ancora una
volta completamente trascurato la questione dello Stato.
Dalla
somma di queste omissioni, silenzi, reticenze, non poteva alla fin
fine risultare che quel completo passaggio all'opportunismo, di cui
parleremo subito.
La
socialdemocrazia tedesca aveva l'aria di proclamare, per bocca di
Kautsky: Io conservo le mie idee rivoluzionarie (1899). Riconosco in
particolar modo l'ineluttabilità della rivoluzione sociale del
proletariato (1902). Riconosco che una nuova èra di rivoluzioni
comincia (1909). Ma tuttavia, nel momento in cui si pone la questione
dei compiti della rivoluzione proletaria verso lo Stato (1912), vado
indietro in confronto a ciò che Marx disse già nel 1852.
Così
appunto fu posta la questione nella polemica di Kautsky con
Pannekoek.
3.
La polemica di Kautsky con Pannekoek
Pannekoek,
quando entrò in polemica con Kautsky, era uno dei rappresentanti
della tendenza "radicale di sinistra", che contava nelle
sue file Rosa Luxemburg, Karl Radek e altri, i quali, difendendo la
tattica rivoluzionaria, concordavano nel riconoscere che Kautsky
stava passando a una posizione di "centro", priva di
princípi, oscillante tra il marxismo e l'opportunismo. L'esattezza
di questa valutazione è stata pienamente dimostrata dalla guerra,
nel corso della quale la tendenza detta di "centro"
(falsamente chiamata marxista) o "kautskiana" si è
rivelata in tutta la sua rivoltante meschinità.
In
un articolo, in cui si occupa del problema dello Stato, L'azione di
massa e la rivoluzione [62] (Neue Zeit, 1912, XXX, 2), Pannekoek
definiva la posizione di Kautsky come un "radicalismo passivo",
un "teoria dell'attesa inerte". "Kautsky non vuol
vedere il processo della rivoluzione" (p. 616). Ponendo in tal
modo la questione Pannekoek affronta l'argomento che ci interessa sui
compiti della rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato.
"La
lotta del proletariato - egli scriveva - non è soltanto una lotta
contro la borghesia per il potere dello Stato; è anche una lotta
contro il potere dello Stato... La rivoluzione proletaria consiste
nell'annientare gli strumenti di forza dello Stato e nell'eliminarli
[letteralmente: dissolverli, Auflösung] mediante gli strumenti di
forza del proletariato... La lotta cessa soltanto quando, raggiunto
il risultato finale, l'organizzazione dello Stato è completamente
distrutta. L'organizzazione della maggioranza prova la sua
superiorità annientando l'organizzazione della minoranza dominante"
(p. 548).
Le
formule con cui Pannekoek riveste le sue idee sono piene di gravi
difetti. Ma l'idea è tuttavia chiara ed è interessante vedere in
che modo Kautsky ha cercato di confutarla.
"Finora,
egli dice, l'opposizione tra i socialdemocratici e gli anarchici
consisteva nel fatto che i primi volevano conquistare il potere dello
Stato, i secondi distruggerlo. Pannekoek vuole l'uno e l'altro"
(p. 724).
Se
l'esposizione di Pannekoek difetta di chiarezza e di concretezza (per
non parlare degli altri difetti del suo articolo che non si
riferiscono al tema qui discusso), Kautsky da parte sua affronta
proprio il principio essenziale del problema accennato da Pannekoek e
in questa questione essenziale di principio egli abbandona
completamente le posizioni del marxismo per passare del tutto
all'opportunismo. La distinzione che egli stabilisce tra
socialdemocratici e anarchici è totalmente sbagliata; il marxismo è
qui assolutamente snaturato e degradato.
I
marxisti si distinguono dagli anarchici in questo: 1) i primi, pur
ponendosi l'obiettivo della soppressione completa dello Stato, non lo
ritengono realizzabile se non dopo la soppressione delle classi per
opera della rivoluzione socialista, come risultato dell'instaurazione
del socialismo che porta all'estinzione dello Stato; i secondi
vogliono la completa soppressione dello Stato dall'oggi al domani,
senza comprendere quali condizioni la rendano possibile; 2) i primi
proclamano la necessità per il proletariato, dopo ch'esso avrà
conquistato il potere politico, di distruggere completamente la
vecchia macchina statale e di sostituirla con una nuova, che consiste
nell'organizzazione degli operai armati, sul tipo della Comune; i
secondi, pur reclamando la distruzione della macchina statale, si
rappresentano in modo molto confuso con che cosa il proletariato la
sostituirà e come utilizzerà il potere rivoluzionario; gli
anarchici rinnegano persino qualsiasi utilizzazione del potere dello
Stato da parte del proletariato rivoluzionario, la sua dittatura
rivoluzionaria; 3) i primi vogliono che il proletariato si prepari
alla rivoluzione utilizzando lo Stato moderno; gli anarchici sono di
parere contrario.
In
questa discussione è Pannekoek che rappresenta il marxismo, contro
Kautsky, proprio Marx infatti ha insegnato che il proletariato non
può conquistare puramente e semplicemente il potere statale, - nel
senso che il vecchio apparato dello Stato passi in nuove mani, - ma
deve spezzare, demolire questo apparato e sostituirlo con uno nuovo.
Kautsky
abbandona il marxismo per l'opportunismo; nei suoi scritti infatti
scompare appunto questa distruzione della macchina statale, cosa
assolutamente inammissibile per gli opportunisti; egli lascia a
questi ultimi una scappatoia che permette loro di interpretare la
"conquista" del potere come un semplice conseguimento della
maggioranza.
Per
nascondere questa sua deformazione del marxismo, Kautsky si comporta
da scolastico e ricorre a una "citazione" dello stesso
Marx. Nel 1850 Marx parlava della necessità di una "decisissima
centralizzazione del potere nelle mani dello Stato" [63]. E
Kautsky trionfante domanda: vuole forse Pannekoek distruggere il
"centralismo"?
E'
un semplice giuoco di prestigio che ricorda quello di Bernstein, con
la sua identificazione di marxismo e proudhonismo a proposito
dell'idea della federazione da opporre al centralismo.
La
"citazione" di Kautsky cade a proposito come i cavoli a
merenda. Il centralismo è possibile sia con la vecchia macchina
dello Stato, che con la nuova. Se gli operai uniscono volontariamente
le loro forze armate, si avrà del centralismo, ma questo centralismo
sarà fondato sulla "completa distruzione" dell'apparato
statale centralista, dell'esercito permanente, della polizia, della
burocrazia. Kautsky si comporta in modo assolutamente disonesto
eludendo le osservazioni ben note di Marx e di Engels sulla Comune
per andare a cercare una citazione che non ha niente a che fare con
la questione.
"...Vuol
forse Pannekoek sopprimere le funzioni statali dei funzionari? -
continua Kautsky. - Ma noi non possiamo fare a meno dei funzionari né
nel partito né nei sindacati, senza parlare delle amministrazioni
dello Stato. Il nostro programma richiede non l'eliminazione dei
funzionari dello Stato, ma la loro elezione da parte del popolo...
Non si tratta ora per noi di sapere quale forma assumerà l'apparato
amministrativo nello "Stato futuro", ma di sapere se la
nostra lotta politica distruggerà [letteralmente: dissolverà,
auflöst] il potere statale prima che noi l'abbiamo conquistato...
[il corsivo è di Kautsky]. Quale ministro coi suoi funzionari
potrebbe essere distrutto?" Ed enumera i ministri
dell'Istruzione pubblica, della Giustizia, delle Finanze, della
Guerra. "No, nessuno dei ministeri attuali sarà soppresso dalla
nostra lotta politica contro il governo... Lo ripeto, per evitare
malintesi: non si tratta di sapere quale forma la socialdemocrazia
vittoriosa darà allo "Stato futuro", ma come la nostra
opposizione trasforma lo Stato attuale" (p. 725).
E'
un vero giuoco dei bussolotti. Pannekoek poneva precisamente il
problema della rivoluzione. Il titolo del suo articolo e i brani
citati lo dicevano chiaramente. Saltando alla questione
dell'"opposizione" Kautsky non fa che sostituire al punto
di vista rivoluzionario il punto di vista opportunista. Ne risulta
quindi: adesso, opposizione; in quanto a ciò che bisognerà fare
dopo la conquista del potere, si vedrà poi. La rivoluzione
scompare... E' proprio quello che occorre agli opportunisti.
Non
è dell'opposizione né della lotta politica in generale che si
tratta: si tratta della rivoluzione. La rivoluzione consiste nel
fatto che il proletariato distrugge l'"apparato amministrativo"
e tutto l'apparato dello Stato per sostituirlo con uno nuovo,
costituito dagli operai armati. Kautsky rivela una "venerazione
superstiziosa" per i "ministeri"; ma perché questi
non potrebbero essere sostituiti, per esempio, da commissioni di
specialisti presso i Soviet, sovrani e con pieni poteri, dei deputati
operai e soldati?
L'essenziale
non è affatto di sapere se rimarranno i "ministeri" o se
saranno sostituiti da "commissioni di specialisti" o da
altre istituzioni: questo non ha assolutamente nessuna importanza. La
questione essenziale è di sapere se la vecchia macchina statale
(legata con mille fili alla borghesia e impregnata di spirito
burocratico e conservatore) sarà mantenuta oppure distrutta e
sostituita con una nuova. La rivoluzione non deve consistere nel
fatto che la nuova classe comandi o governi per mezzo della vecchia
macchina statale, ma che, dopo averla spezzata, comandi e governi per
mezzo di una macchina nuova: è questa l'idea fondamentale del
marxismo che Kautsky fa sparire o non ha assolutamente capito.
La
sua domanda a proposito dei funzionari mostra in modo evidente
ch'egli non ha capito né gli insegnamenti della Comune né la
dottrina di Marx. "Noi non possiamo fare a meno dei funzionari
né nel partito né nei sindacati"...
Non
possiamo fare a meno dei funzionari in regime capitalistico, sotto il
dominio della borghesia. Il proletariato è oppresso e le masse
lavoratrici sono asservite dal capitalismo. In regime capitalistico,
la democrazia è ristretta, compressa, monca, mutilata, da tutto
l'ambiente creato dalla schiavitù del salario, dal bisogno e dalla
miseria delle masse. Per questo, e solo per questo, nelle nostre
organizzazioni politiche e sindacali i funzionari sono corrotti (o,
più esattamente, hanno tendenza a esserlo) dall'ambiente
capitalistico e manifestano l'inclinazione a trasformarsi in
burocrati, cioè in persone privilegiate, staccate dalle masse e
poste al di sopra di esse.
Qui
è l'essenza del burocratismo; e fino a quando i capitalisti non
saranno stati espropriati, fino a quando la borghesia non sarà stata
rovesciata, una certa "burocratizzazione" degli stessi
funzionari del proletariato è inevitabile.
Secondo
Kautsky risulta dunque che, poichè vi saranno impiegati eletti, vuol
dire che anche in regime socialista ci saranno dei funzionari, ci
sarà la burocrazia! Ma è proprio questo che è falso. Attraverso
appunto l'esempio della Comune, Marx dimostrò che i detentori di
funzioni pubbliche cessano, in regime socialista, di essere dei
"burocrati" dei "funzionari" nella misura in cui
viene introdotta, oltre all'eleggibilità, anche la loro revocabilità
in ogni momento, e ancora, si riduce il loro stipendio al salario
medio di un operaio e ancora si sostituiscono gl'istituti
parlamentari con istituti "di lavoro, cioè esecutivi e
legislativi allo stesso tempo".
In
fondo tutta l'argomentazione di Kautsky contro Pannekoek, e
particolarmente il suo magnifico argomento sulla necessità dei
funzionari nelle organizzazioni sindacali e di partito, provano che
Kautsky ripete i vecchi "argomenti" di Bernstein contro il
marxismo in generale. Nel suo libro Le premesse del socialismo, il
rinnegato Bernstein si scaglia contro l'idea della democrazia
"primitiva", contro quello ch'egli chiama "democratismo
dottrinario": mandati imperativi, funzionari non rimunerati,
rappresentanza centrale senza poteri, ecc.
Per
provare l'inconsistenza di questo sistema democratico "primitivo",
Bernstein invoca l'esperienza delle trade-unions inglesi, quale è
interpretata dai coniugi Webb. Nei settant'anni del loro sviluppo, le
trade-unions, che si sarebbero sviluppate "in piena libertà"
(p. 137 ed. tedesca), si sarebbero convinte appunto della inefficacia
del sistema democratico primitivo e l'avrebbero sostituito con quello
abituale: il parlamentarismo unito al burocratismo.
In
realtà le trade-unions non si sono sviluppate "in piena
libertà", ma in piena schiavitù capitalistica, nella quale,
certo, "non si può fare a meno" di una serie di
concessioni al male imperante, alla violenza, alla menzogna,
all'esclusione dei poveri dagli affari di amministrazione
"superiore". In regime socialista rivivranno
necessariamente molti aspetti della democrazia "primitiva",
perchè per la prima volta nella storia delle società civili la
massa della popolazione si eleverà a una partecipazione
indipendente, non solo nelle votazioni e nelle elezioni, ma
nell'amministrazione quotidiana. In regime socialista tutti
governeranno, a turno, e tutti si abitueranno ben presto a far sí
che nessuno governi.
Col
suo geniale spirito critico e analitico Marx vide nei provvedimenti
pratici della Comune quella svolta che gli opportunisti temono tanto
e, per viltà, si rifiutano di riconoscere perchè rifuggono dal
rompere definitivamente con la borghesia, e che anche gli anarchici
si rifiutano di vedere, o perchè sono troppo imprudenti, o in
generale perchè non comprendono le condizioni delle trasformazioni
sociali di massa. "Non bisogna nemmeno pensare a distruggere la
vecchia macchina statale; che cosa diverremmo senza ministeri e senza
funzionari": così ragiona l'opportunista imbevuto di spirito
filisteo e che, in fondo, non solo non crede alla rivoluzione e alla
sua potenza creatrice, ma ha di essa una paura mortale (come i nostri
menscevichi e i nostri socialisti-rivoluzionari).
"Bisogna
pensare unicamente alla distruzione della vecchia macchina statale; è
inutile approfondire gli insegnamenti concreti delle rivoluzioni
proletarie passate e analizzare con che cosa e come sostituire ciò
che si distrugge": così ragiona l'anarchico (il migliore degli
anarchici, naturalmente, e non quello che, al seguito dei signori
Kropotkin e compagni, si trascina dietro la borghesia); e l'anarchico
arriva in tal modo alla tattica della disperazione, e non al lavoro
rivoluzionario risoluto, inesorabile, che però al tempo stesso si
pone dei compiti concreti e tiene conto delle condizioni pratiche del
movimento delle masse.
Marx
ci insegna ad evitare questi due errori; ci insegna a dar prova di
illimitato coraggio nel distruggere tutta la vecchia macchina statale
e ci insegna al tempo stesso a porre il problema in modo concreto: in
poche settimane, la Comune potè incominciare a costruire una nuova
macchina statale proletaria; ed ecco i provvedimenti da essa presi
per realizzare una democrazia più perfetta e sradicare la
burocrazia. Impariamo dunque dai comunardi l'audacia rivoluzionaria,
cerchiamo di vedere nei loro provvedimenti pratici un abbozzo dei
provvedimenti praticamente urgenti e immediatamente realizzabili e
arriveremo allora, seguendo questa strada, alla completa distruzione
della burocrazia.
La
possibilità di questa distruzione ci è garantita dal fatto che il
socialismo ridurrà la giornata di lavoro, eleverà le masse a una
vita nuova e metterà la maggioranza della popolazione in condizioni
tali da permettere a tutti, senza eccezione, di adempiere le
"funzioni statali", ciò che porta in ultima analisi alla
completa estinzione di qualsiasi Stato in generale.
"...Il
compito dello sciopero di massa continua Kautsky non può essere di
distruggere il potere statale, ma soltanto di indurre il governo a
fare delle concessioni su una determinata questione o di sostituire
un governo ostile al proletariato con un governo che gli vada
incontro [entgegenkommende] ...Ma mai, in nessun caso, ciò"
(cioè la vittoria del proletariato su un governo ostile) "può
portare alla distruzione del potere statale, il risultato non può
essere che un certo spostamento [Verschiebung] nel rapporto delle
forze all'interno del potere statale... L'obiettivo della nostra
lotta politica rimane dunque, come per il passato, la conquista del
potere statale mediante il conseguimento della maggioranza in
Parlamento e della trasformazione del Parlamento in padrone del
governo" (pp. 726, 727, 732).
Questo
è già purissimo e banalissimo opportunismo, la rinuncia di fatto
alla rivoluzione, pur riconoscendola a parole. Il pensiero di Kautsky
non va oltre un "governo che vada incontro al proletariato",
ed è un passo indietro verso il filisteismo in rapporto al 1847,
anno in cui il Manifesto del Partito comunista proclamava
"l'organizzazione del proletariato in classe dominante".
Kautsky
sarà costretto a realizzare l'" unità", che gli sta tanto
a cuore, con gli Scheidemann, i Plekhanov, i Vandervelde, tutti
unanimi nel lottare per un governo "che vada incontro al
proletariato".
Quanto
a noi, noi romperemo con questi rinnegati del socialismo e lotteremo
per la distruzione di tutta la vecchia macchina dello Stato affinchè
il proletariato armato diventi esso stesso il governo. Sono due cose
del tutto diverse.
Kautsky
sarà costretto a rimanere nella piacevole compagnia dei Legien e dei
David, dei Plekhanov, dei Potresov, degli Tsereteli e dei Cernov, che
sono pienamente d'accordo nel lottare per uno "spostamento nel
rapporto delle forze all'interno del potere dello Stato", per il
"conseguimento della maggioranza in Parlamento e della
trasformazione del Parlamento in padrone del governo",
nobilissimo obiettivo che può essere completamente accettato dagli
opportunisti e che non esce per nulla dal quadro della repubblica
borghese parlamentare.
Quanto
a noi, noi romperemo con gli opportunisti; e il proletariato
cosciente sarà tutto con noi nella lotta, non per uno "spostamento
nel rapporto delle forze", ma per il rovesciamento della
borghesia, per la distruzione del parlamentarismo borghese, per una
repubblica democratica sul tipo della Comune o della repubblica dei
Soviet dei deputati operai e soldati, per la dittatura rivoluzionaria
del proletariato.
Nel
socialismo internazionale vi sono tendenze ancora più a destra di
quella di Kautsky: la Rivista mensile socialista in Germania (Legien,
David, Kolb e molti altri, compresi gli scandinavi Stauning e
Branting); i jauressisti e Vandervelde in Francia e nel Belgio;
Turati, Treves e gli altri rappresentanti della destra nel Partito
socialista italiano; i fabiani e gli "indipendenti" (il
"partito operaio indipendente" è sempre stato, in realtà,
dipendente dai liberali) in Inghilterra e tutti gli altri. Tutti
questi signori, che hanno una parte assai notevole e molto spesso
preponderante nell'attività parlamentare e nella stampa del partito,
respingono apertamente la dittatura del proletariato e rivelano un
evidente opportunismo. Per essi la "dittatura" del
proletariato è "in contraddizione" con la democrazia! In
fondo niente di serio li distingue dai democratici piccolo-borghesi.
Abbiamo
quindi diritto di concludere che la Seconda Internazionale,
nell'immensa maggioranza dei suoi rappresentanti ufficiali, è
completamente caduta nell'opportunismo. L'esperienza della Comune è
stata non soltanto dimenticata ma travisata. Invece di infondere
nelle masse operaie la convinzione che si avvicina il momento in cui
esse dovranno agire e spezzare la vecchia macchina statale,
sostituirla con una nuova e fare del loro dominio politico la base
della trasformazione socialista della società, si è inculcato in
esse la convinzione contraria, e la "conquista del potere"
è stata presentata in modo tale che mille brecce rimanevano aperte
all'opportunismo.
La
deformazione e la congiura del silenzio intorno al problema
dell'atteggiamento della rivoluzione proletaria nei confronti dello
Stato non potevano mancare di esercitare un'immensa influenza, in un
momento in cui gli Stati, muniti di un apparato militare rafforzato
dalle competizioni imperialiste, sono diventati dei mostri militari
che mandano allo sterminio milioni di uomini per decidere chi, tra
l'Inghilterra e la Germania, tra questo o quel capitale finanziario,
dominerà il mondo.
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